«Essere, o non essere, questo è il problema:
se sia più nobile nella mente soffrire
colpi di fionda e dardi d’oltraggiosa fortuna
o prender armi contro un mare d’affanni
e, opponendosi, por loro fine?»
Essere o non essere? Tra scelta e conseguenza
Che strana domanda che si pone Amleto, come se esserci potesse essere una scelta, e non una conseguenza. Come se scegliere di non esserci fosse una sorta di liberazione irraggiungibile e proibita, volta a una pace dell’anima al mondo sconosciuta. Ma che strani questi essere umani. Che si affidano a pagine scritte più di cinquecento anni fa per provare a spiegare i loro sentimenti. Li guardo muoversi per le città, senza che nessuno si accorga di me, e vedo tutto. Qualcuno è felice, qualcuno è triste, qualcuno proprio non sa cosa fare. Se solo potessi parlargli, direi loro di stare tranquilli, di far passare il tempo, senza troppo ascoltarlo, quell’Amleto lì, così pieno di dubbi e così poco sereno. Si fidassero di me, il buon William Shakespeare non ci credeva davvero, aveva solo un grande talento.
Ma che significa essere assenti? A lungo andare forse è come non essere mai esistiti, no? Se si rimane assenti troppo a lungo, chi si ricorderà di noi?
Se lo chiedete a me, che è un bel pezzo che passo inosservato tra la gente del mondo, essere assenti è stupendo. Certo, alla mia prima scomparsa qualcuno ci è rimasto male, non troppi, ma abbastanza per farmi sentire bene con me stesso. E poi, un giorno alla volta con qualche sospiro e qualche sorriso, sono andati avanti senza di me. Hanno perfino smesso di cercarmi, sapete? Dopo la prima sofferenza iniziale tutto si è appiattito, e io, che per davvero non me n’ero mai andato, sono rimasto a guardare l’assurdità di ciò che mi stava intorno. O meglio, che mi era stato intorno.
L’assurdità degli affanni di una vita complessa, della ricerca incessante di qualcosa da ottenere, degli incontri molteplici che quotidianamente colorano le giornate regalando la speranza di imbattersi, a un certo punto, in qualcuno che possa regalarci qualcosa, e farci saltare la fatica dell’ottenerla, per poi magari un giorno trovare qualcuno di cui innamorarci e che ci faccia innamorare di noi, e poi cercare di convincere le altre persone a vedere il mondo come lo vediamo noi, senza però accorgerci che la bellezza del mondo è essere visto da tutti in modo diverso.
Dopo qualche giorno senza essere visto mi sono sentito libero
E dopo qualche giorno, in cui guardavo senza essere visto, mi sono sentito, per la prima volta in vita mia, bene. Ero libero. Stavo bene perché non dovevo essere, stavo bene perché senza un corpo, potevo guardare dall’alto tutti quelli che ne avevano uno, e potevo compatirli, come si compatiscono degli animaletti in un laboratorio che vengono sottoposti a mille e mille esperimenti, senza rendersi conto di come di cosa o di perché. E nel compatirli mi davo ragione, mi rendevo conto di come quella scelta fosse stata la più giusta della mia vita, e che tutta quella sofferenza e quella rabbia e quella paura, non avevano nessun senso, e che non aveva senso stare così male soltanto per far finta di vivere. Che sciocco ero stato per tutti quegli anni, a fare la parte di tutti quei topini da laboratorio, quando sempre ho saputo che non mi apparteneva.
E dopo qualche settimana il cielo mi sembrava più blu, e non perché ci fosse più sole, ma perché non vedevo le nuvole, e i colori erano più accesi, e la leggerezza dell’animo mi ingannava di felicità.
E poi dopo qualche mese, però, i colori erano ancora accesi, ma mi sembrava quasi che l’aria non sapesse più di niente, era come se i fiori non avessero più un profumo, e quei forni, davanti ai quali passeggiavo invisibile per coglierne la fragranza mattutina, tutto d’un tratto non sapevano più di nulla, e piano piano le persone, che solo poco fa mi erano sembrate topini da laboratorio, erano quasi felici, tutte quante, anche quelle che piangevano disperate. E la pioggia non sapeva più di nulla. La pioggia, capite? Né malinconia né altro.
Il niente, eppure il sapore della pioggia mi rendeva così felice una volta. E poi anche i colori, da accesi che mi erano parsi, diventavano sempre più scuri, fino ad arrivare al nero, e poi sparire nel nulla, nessun colore nessuna luce, niente. E quella leggerezza, che mi aveva dato l’illusione di volare, adesso mi faceva volare via, lasciandomi come un bambino che ha perso il suo palloncino nel cielo, che l’aveva fatto così felice, e inizia a piangere perché non c’è niente che possa fare per recuperarlo, e non c’è niente che nessuno possa fare per lui, perché è tutto finito ed è troppo tardi.
Ma adesso vorrei tornare a soffrire
E adesso, che sono assente ormai da troppo tempo e che vorrei smettere di esserlo, perché vorrei tornare a soffrire, ad essere arrabbiato e ad avere paura, anche solo per un istante, per provare a sentire qualcosa, a vedere qualcosa, per provare di nuovo per una frazione infinita di un secondo a essere. Essere vivo essere presente. Essere anche l’ultimo degli esseri viventi sulla Terra, ma per quella frazione vorrei tanto, davvero tanto, essere vivo.
E allora quella scelta è stata davvero sciocca, quel giorno, quando per un motivo che ormai neanche ricordo, ho scelto di non vivere più, e di condannarmi a essere assente per sempre. A essere, semplicemente, morto.
– Edoardo Hensemberger
“E la pioggia non sapeva più di nulla. La pioggia, capite? Né malinconia né altro.”