Intervista a Jonathan Haidt: “Siamo imperfetti, capaci di superare le ostilità reciproche. Basta ragionare come tribu”

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Il B.Liver Roberto ha intervistato Jonathan Haidt, il quale analizza i tribalismi umani e il loro impatto, proponendo la convivenza basata sulla fiducia reciproca e il ridotto uso dei social media per i giovani.
Foto di Andrew Tan da Pixabay.

Intervista a Jonathan Haidt, docente di etica e psicologo sociale dell’NYU

New York. Alla New York University si discute con il professor Jonathan Haidt, famoso docente di etica e psicologo sociale, su come far convivere meglio gli umani, una specie che sembra non liberarsi mai da tribalismi politici e sette religiose. Haidt, 60 anni, studia da sempre i meccanismi profondi che regolano la nostra esistenza, utilizzando gli strumenti di indagine forniti dalla psicologia, antropologia ed evoluzionismo. Tra i suoi libri più noti Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione e Generazione ansiosa, sugli effetti «tribali» provocati dall’eccesso di uso dei social, che spesso fanno da filtro digitale al mondo reale. Il docente presenta così il tema della convivenza contemporanea: «Premettiamo sempre che ognuno di noi nel rapporto con gli altri non è buono o cattivo per definizione e a vita, non è sempre dalla parte giusta per inerzia, non ha sempre ragione, non può esprimersi sempre per appartenenza a un partito politico, a una famiglia, a una religione».

Jonathan Haidt, (New York,1963) psicologo statunitense, professore di leadership etica alla Stern School of Business dell’Università di New York. È autore del libro La Generazione Ansiosa: Come la Grande Riconfigurazione dell’Infanzia Sta Causando un’Epidermide di Malattie Mentali.

Professore oggi questa premessa morale convince poche persone.

«Perché siamo ancora dominati da meccanismi profondi di appartenenza a una propria tribù, che periodicamente danno vita a scoppi di rabbia contro le altre. Atti che alterano la nostra esistenza, le decisioni che prendiamo, i valori che crediamo universali. È il tribalismo che fa parte di processi biologici ancestrali, una tendenza naturale dell’uomo a riunirsi in comunità omogenee, a dividersi dal suo vicino su ciò che ritiene essere giusto o sbagliato».

La mente umana, si legge nella sua inchiesta Menti tribali e convivenza, funzionerebbe come un elefante guidato da un fantino. Il pachiderma starebbe per le nostre intuizioni morali, l’omino che le guida interpreterebbe la ragione. È un attacco a chi, al contrario, crede fortemente nella forza della ragione?

«Questa immagine forte può aiutarci a mettere da parte alcune visioni ideologiche. Come quella per cui il posizionamento politico degli individui è dettato solo dall’interesse individuale. La ragione molto spesso non comanda. Di fronte a domande morali, “cosa è il bene cosa è il male?”, abbiamo la tendenza a raggiungere subito una conclusione, scavalcando le ideologie e anche gli interessi. Solo in seguito produciamo giustificazioni per ciò che abbiamo già deciso o concluso».

Convivenza in gruppi aperti e conflitti tra tribù: che prospettive per il futuro?

«Il conflitto tribale, materiale e immateriale, porta al collasso delle società. La morale della convivenza pacifica ha invece contribuito a contenere la ferocia e la crudeltà sul pianeta, oggi scese a livelli mai conosciuti in tutti i tempi, soprattutto se utilizziamo uno sguardo di lungo periodo e non quello dei media legati al giorno per giorno. La convivenza è quindi indispensabile, ma è una marcia difficile, nella sabbia. Prendiamo coscienza che la convivenza si basa sulla fiducia reciproca, parziale, che è quasi sempre imperfetta e limitata».

È solo un cambiamento di punto di vista?

«È l’accettazione di una realtà che ci spinge a fare meglio. Tutti noi siamo chiamati ad apprezzare di più le emozioni della vita reale, a guardare di più in faccia gli altri, in carne ed ossa, a chiacchierare di più ad un tavolo con gli amici. A dialogare di più con quella parte di noi che è cooperativa, nata per vivere in comunità e si oppone ai nostri comportamenti di membri di tribù. Siamo chiamati a riportare in superficie la parte fondamentale di noi che funziona come le api che costruiscono e vivono intorno al proprio alveare».

Il suo libro più recente, Generazione ansiosa, conclude sostenendo che l’uso continuo dei social media provoca danni psichici, mancanza di concentrazione, in particolare sui giovani tra i 12 e i 25 anni che faticano a convivere con gli altri.

«È cambiato il modo di fare esperienza per le nuove generazioni. La diffusione dell’uso di social in particolare tra i giovani, massiccia, sistemica, con 200-300 notifiche al giorno di contenuti aggressivi e pubblicità commerciale sugli smartphone, riduce le relazioni corporee. Abbiamo mandato i giovani a vivere su un altro pianeta, in tribù immateriali, create dal business del marketing digitale che è in mano a pochi monopolisti del mercato dell’intrattenimento. Ricordiamo che l’enorme rete dei social network, nata nei primi anni di questo millennio e che connette miliardi di persone, è un’esperienza mai fatta dal genere umano, abituato ad un’evoluzione per gruppi relativamente piccoli e ben definiti, temporalmente e geograficamente».

Vita individuale, rete social e convivenza: come riequilibrarli?

«Salvaguardando gli spazi dedicati ai corpi, alla pianificazione degli incontri di persona e agli investimenti in relazioni umane di lungo periodo. Rimediando all’errore di quei genitori, degli educatori che hanno permesso il passaggio senza controllo da un’infanzia basata su giochi aperti al mondo reale, ad un’infanzia chiusa sul video dello smarthphone. Ho proposto di introdurre alcune regole e consigli pratici di comportamento: più gioco libero in presenza dei ragazzi, più tempi di ricreazione a scuola, ritardare l’uso dei social per fasce di età».

– Jonathan Heidt

“È cambiato il modo di fare esperienza per le nuove generazioni. La diffusione dell’uso di social in particolare tra i giovani, massiccia, sistemica, con 200-300 notifiche al giorno di contenuti aggressivi e pubblicità commerciale sugli smartphone, riduce le relazioni corporee. Abbiamo mandato i giovani a vivere su un altro pianeta, in tribù immateriali, create dal business del marketing digitale che è in mano a pochi monopolisti del mercato dell’intrattenimento. Ricordiamo che l’enorme rete dei social network, nata nei primi anni di questo millennio e che connette miliardi di persone, è un’esperienza mai fatta dal genere umano, abituato ad un’evoluzione per gruppi relativamente piccoli e ben definiti, temporalmente e geograficamente.”

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