Convivenza in carcere: stare in una cella tutto il giorno con un compagno (che non sempre diventa il grande amico)

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Claudio racconta cosa significa vivere in carcere, condividendo spazi ristretti e provando a superare sfide culturali. La sorveglianza dinamica aiuta, ma la convivenza è difficile. Le relazioni costruite, però, possono portare a storie di speranza.
Foto durante la visita dei B.Liver alla casa di reclusione di Milano Opera.
Foto durante la visita dei B.Liver alla casa di reclusione di Milano Opera.

Claudio racconta al Bullone la sua esperienza di convivenza in carcere

Per molti di noi detenuti uno degli argomenti difficili da gestire all’interno delle carceri, oltre alla privazione della libertà e alla lontananza dalla famiglia, è anche fare i conti con la convivenza in ambienti ristretti e non sempre mantenuti nei migliori dei modi, come le celle di un carcere.

Voglio subito chiarire che la parola «cella» è ormai obsoleta secondo l’ordinamento penitenziario, il termine più adatto è «stanza di pernottamento». Questo grazie a una legge di qualche anno fa che ha permesso a tutti gli istituti penitenziari di adottare la cosiddetta «sorveglianza dinamica», tecnicamente l’apertura delle celle dal mattino fino alla sera, in modo che il detenuto possa usufruire di più tempo al di fuori della stanza e non stare per la maggior parte della giornata in uno spazio ristretto e diviso da più persone.

Nell’articolo vi capiterà anche di trovare il termine «concellino», termine carcerario utilizzato sia dai detenuti che dagli operatori che ci lavorano per definire la persona con cui si divide la cella.

In Italia abbiamo più di 180 istituti penitenziari, ognuno di essi ha un proprio modo e proprie regole per gestire la suddivisione degli spazi. Troviamo carceri che sono fornite di celle singole, mentre altre che hanno stanzoni con spesso più di 10 detenuti. Immaginate di non essere mai da soli e dividere lo stesso spazio, servizi sanitari e oggettistiche varie con dei totali sconosciuti e non sapere quando sarà la prossima volta che potrai di nuovo ascoltare il silenzio: un vero e proprio assalto alla privacy.

Tutto sommato, per esperienza non posso scrivere un articolo negativo, nei miei 15 anni di detenzione sono stato abbastanza fortunato, ho passato la maggior parte del tempo in uno spazio mio, una cella singola.

Foto durante la visita dei B.Liver alla casa di reclusione di Milano Opera.

Non tutti però, ritengono che questa sia una fortuna, all’inizio mi meravigliavo quando vedevo persone che facevano di tutto pur di non stare da sole la notte. Poi, con il tempo ho capito il perché: avere qualcuno in stanza aiuta a passare il tempo, una partita di carte, commentare un film o farsi dare una mano a scrivere una lettera alla famiglia. Altri preferiscono stare in compagnia per sfuggire dalla realtà, per non ascoltare le grida del silenzio o i sussurri dei demoni che alimentano i rimorsi, in questo caso esiste anche un’altra soluzione: la «terapia», soluzione spesso usata per farsi coccolare da Orfeo che ci manda a letto presto e magicamente è di nuovo giorno.

All’interno del carcere di Opera il massimo che può accaderti è di ritrovarti con un solo concellino, perché dispone solo di celle da 2 persone. All’inizio può essere dura, perché non sai con chi ti tocca condividere quel minuscolo spazio. Non solo, devi affrontare la difficolta di un altro essere al tuo fianco, ma spesso ci ritroviamo ad affrontare differenze culturali, religiose o di orientamento politico-sociale. Solo dopo qualche tempo che sei dentro hai la possibilità di ambientarti e conoscere chi ti circonda e forse scegliere anche con chi condividere la cella, fino a quando anche quella persona, dopo un periodo di tempo, forse anni passati insieme, diventa una parte di te. Però arriva il momento che farà i sacchi varcando la soglia del penitenziario, forse scarcerato, oppure in viaggio per un’altra destinazione. Nonostante non sia stato molto il tempo con cui ho diviso la cella con altri detenuti, ho anch’io qualche ricordo di loro e vorrei raccontarvi alcuni momenti che ritengo siamo i più significativi.

Sicuramente ritrovarti in cella con qualcuno che non rispetta le norme igieniche basilari può essere un fastidio da non poco, soprattutto quando la persona è anziana e non ha la capacità di fare anche solo il minimo per darti una mano, in quel caso si diventa senza alcun titolo un assistente sanitario, o semplicemente il maggiordomo dell’anzianotto, e se ha patologie gravi la notte diventa lunga per entrambi. Altre situazioni da evitare sono le differenze religiose, condividere uno spazio limitato con un musulmano, soprattutto nel periodo di ramadan, può essere una bella sfida. In spazi così ristretti se di notte ti alzi per pregare è inevitabile svegliare l’altro, rinunciare a cucinare la carne di maiale in cella, per rispetto, in modo che i suoi abiti non si impregnino dell’odore di quella carne non è qualcosa a cui si rinuncia facilmente. Insomma, nulla di grave, ma sono tutte piccole privazioni che aggiunte a quelle che impone il carcere, possono rendere quel poco che si ha ancora più difficile da gestire.

Dividere la cella con altre persone non è sempre difficile, anzi conservo ancora ottimi ricordi di ex concellini, persone fantastiche con cui ancora oggi mantengo vivi i contatti, ci sentiamo e posso ritenermi un amico di famiglia. Perché dividere la cella spesso significa anche dividere le proprie storie, i propri segreti, magari ti ritrovi a dare consigli che possono effettivamente cambiare il futuro di chi ti è a fianco. Ricordo ancora un amico S., che aveva difficoltà con il figlio ormai trentenne, in quel periodo dividevo la cella con S. da ormai 10 mesi, e quasi tutte le santissime sere mi raccontava di quando lui e il figlio erano insieme. La nascita, i primi passi, il primo giorno di scuola, il dolore del primo dente, le notti passate sveglio: in pratica quel ragazzo lo stavo crescendo anch’io. Ma poi, dopo l’arresto e passati oltre 15 anni, questa persona non aveva avuto più un contatto, neanche telefonico.

La causa, come spesso avviene, era che Mauro, il figlio, non volesse sentire più il padre perché si sentiva abbandonato da lui, che a sua volta per rispetto e forse anche per vergogna, non aveva più telefonato rispettando la sua decisione, cosa che gli aveva procurato un enorme bagaglio di sofferenza. Finché un giorno, ormai stanco, annoiato e con i miei problemi in testa, prendo S. e lo obbligo a chiamare il figlio. Il terrore era evidente: vedere un uomo di una certa età tremare e sudare sempre di più ad ogni passo che lo avvicinava al telefono è stato un vero colpo. Mille erano le domande che mi porgeva durante quei pochi metri, e se fosse ancora arrabbiato? Se poi venisse a trovarmi e mi vedesse ormai vecchio? Non immagino il caos emotivo che in quel momento S. aveva in testa, ma una cosa era certa: doveva chiamare Mauro che ormai non era più un ragazzino e forse anche lui tutte le sere passava qualche minuto a pensare al padre.

Oggi S. è fuori, ha scontato tutta la sua pena, vive in una casa non lontano dal figlio, sono diventati inseparabili e tutti i giorni si reca a casa sua a godersi i nipoti. Mi scrivono spesso e sicuramente un giorno avrò anch’io modo di conoscere Mauro da vicino. Questo è un ricordo che porto stretto con me, perché nonostante l’ambiente carcerario sia triste e cupo, siamo spesso artefici e testimoni di storie a lieto fine.

-Claudio Lamponi

Oggi S. è fuori, ha scontato tutta la sua pena, vive in una casa non lontano dal figlio, sono diventati inseparabili e tutti i giorni si reca a casa sua a godersi i nipoti. Mi scrivono spesso e sicuramente un giorno avrò anch’io modo di conoscere Mauro da vicino. Questo è un ricordo che porto stretto con me, perché nonostante l’ambiente carcerario sia triste e cupo, siamo spesso artefici e testimoni di storie a lieto fine.”

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