Le cose che non sappiamo: “Ehi, ragazzo, lo sai che…”

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Lo sai che...? I B.Liver raccontano le cose che sanno e che noi non sappiamo: un viaggio personale tra sfide mediche; riflessioni sulla nostra insignificanza nella biodiversit;, la storia di Lord Byron; dendrocronologia e comunità di recupero.
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La vita… dentro e fuori la Terra

di Lucia Robuschi

Tu lo sai che…

Se prendiamo in considerazione tutte le forme di vita presenti sulla faccia della Terra, noi esseri umani non valiamo niente. Facciamo un sacco di cose, costruiamo cose, pensiamo cose, ma a livello numerico non siamo niente. Ma proprio niente. Siamo lo 0,01% della vita sul pianeta. Niente.

Ma proprio niente. Io di questa cosa non mi capacito.

Prendiamo l’Italia: siamo in 60 milioni, in proporzione la popolazione umana sulla Terra è equivalente al comune di Meolo, parte della città metropolitana di Venezia, che conta 6000 abitanti. Tu lo conosci Meolo? Io no, mai sentito prima. Quindi probabilmente gli altri esseri viventi sulla Terra manco sanno che esistiamo. E ci sta, mi viene da dire. Fanno bene, anzi.

Ma perché ci sentiamo così importanti? Siamo intelligenti, innegabile, sappiamo fare tante cose, ma chi ce lo dice che anche le altre forme di vita non fanno la stessa cosa? Sembra quasi che non ci accorgiamo che esistano. Come se il comune di Meolo manco si fosse accorto che Venezia esiste. Non ha molto senso, no?

E invece lo sai qual è la forma di vita che rappresenta la maggior parte della biomassa sul pianeta Terra? La piantina che hai appesa in casa, il cactus che ti hanno regalato e che provi a non far morire, ma poi improvvisamente è tutto secco anche se ti avevano detto che non hanno neanche bisogno di acqua, l’albero sotto il quale corri a ripararti in estate perché c’è troppo caldo. I vegetali rappresentano l’87% della vita sul pianeta. Se gli uomini sono Meolo, allora le piante sono tutta la Colombia. Giusto un po’ di sproporzione, no?

Eppure, di nuovo, è come se Meolo si sentisse molto più potente di tutta la Colombia. Mi sa che c’è qualcosa che non va.

Vediamo solo noi stessi perché è difficile concepire la diversità. Come ci fa notare Stefano Mancuso, botanico e biologo, quando dobbiamo pensare a un alieno, la forma di vita teoricamente più distante da noi, ce lo immaginiamo al massimo con gli occhi grossi e due antenne. Ma comunque con forme umane. Che fantasia che abbiamo, wow! E invece se ci togliessimo un attimo le fette di prosciutto dagli occhi, forse potremmo lasciarci ispirare dalla diversità che ci circonda. Che già la diversità all’interno del genere umano ci arricchisce infinitamente, pensa se riuscissimo ad aprirci a ulteriori forme di vita. Che se le piante rappresentano l’87% della vita sulla Terra, qualcosa di giusto l’avranno fatto, no?

E detto questo, forse potremmo anche pensare che siamo intelligenti e tutto, ma che alla fine siamo un granello minuscolo di un sistema enorme. Siamo Meolo, dai, con tutto il rispetto per questo piccolo comune. E relativizzare la nostra dimensione può anche aiutarci a prendere le cose un po’ più alla leggera, senza sminuirle, per carità, però facendo un passo indietro e capendo la relatività delle cose, magari potremmo vederci con un po’ più di lucidità.

Lord Byron

di Silvia Bellinato

Lo sai che Lord Byron, famoso poeta e scrittore inglese ha vissuto per un mese a Milano?

George Gordon Lord Byron (Londra, 1788 – Missolungi, 1824), è stato un poeta e politico britannico.

Considerato da molti uno dei massimi poeti inglesi, Byron è stato un uomo di spicco nella cultura del Regno Unito durante il Romanticismo, del quale è stato l’esponente più rappresentativo insieme con John Keats e Percy B. Shelley.

Dopo aver vissuto molti anni con la madre in Scozia, dove il giovane ha imparato ad amare la natura e ha iniziato a comporre versi, Byron si è trasferito al Trinity College di Cambridge, per poi partire per il Grand Tour, viaggio in uso tra i giovani del 1800, scegliendo, tuttavia, tappe atipiche; visitò Portogallo, Spagna, Malta, Turchia, Albania, Armenia, Grecia e Costantinopoli.

Nel luglio 1811 Lord Byron fece ritorno in patria, vivendo fra Newstead Abbey e Londra.

Entrò nella Camera dei Lord, limitandosi a fare tre interventi, ma soprattutto scrisse i primi due canti del Childe Harold’s Pilgrimage, racconto in versi del viaggio del giovane cavaliere Aroldo, che rappresenta lord Byron stesso. Con questa opera, Byron si consacra come poeta, ma non è ancora accettato dalla società inglese, essendo lui filonapoleonico e indagato per incesto e sodomia.

Scelse, allora, di autoesiliarsi, partendo dall’Inghilterra con un carro identico a quello usato da Napoleone e visitando i luoghi più significativi del celebre condottiero.

In Svizzera divenne amico intimo di Polidori, Percy B. Shelley e Mary Shelley (autrice di Frankenstein); frequentò anche i salotti francesi, in particolare quello di Madame de Staël.

Si spostò, poi, in Italia e arrivò a Milano nell’ottobre 1816, ospite di Ludovico di Breme a Palazzo Orsini (oggi sede di Armani): fu proprio in occasione di questo soggiorno, tra Milano, Villa di Breme a Balsamo e Monza, che Byron conobbe i maggiori intellettuali dell’epoca: Stendhal, Silvio Pellico e Vincenzo Monti e fu introdotto alla cultura armena.

Nel suo periodo milanese, spesso trascorso nel palco del Teatro alla Scala riservato a Di Breme (Ministro dell’Interno dell’Impero Asburgico), Byron era solito discutere di poesia, politica e questioni amorose con i suoi illustri colleghi.

All’Italia è dedicato il IV Canto dei Childe Harold’s Pilgrimage: dopo Milano, infatti, Byron trascorse un lungo periodo a Venezia, dove studiò e tradusse da e verso l’armeno, entrando nella Carboneria, poi a Ravenna, spesso in pellegrinaggio sulla tomba di Dante, per poi salpare da Genova verso la Grecia, che da tempo sosteneva nell’indipendenza dalla Turchia, dove morì prima di poter combattere e dove è celebrato come eroe nazionale.

Per i suoi viaggi, il suo impegno in politica estera e la sua poetica internazionale, Byron è considerato un cittadino europeo ante litteram.

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La storia (anche nostra) degli alberi

di Fiamma C. Invernizzi

La sensazione è simile a quella di leggere un libro che ci racconta di un passato sempre più lontano: dalla corteccia verso il centro, un cerchio alla volta, è come se riuscissimo ad ascoltare con le dita lo scorrere degli anni, l’alternarsi delle stagioni, gli inverni più rigidi e le estati più piovose.

Chi di noi, adulto o bambino, non è rimasto affascinato dalla dendrocronologia? Così si chiama – scientificamente – il sistema di datazione basato sul conteggio degli anelli di accrescimento annuale degli alberi. Un termine di per sé affascinante, che deriva dall’unione delle tre parole greche dendros, chronos e logos (albero, tempo e parola) e che racconta di una conoscenza antica, descritta, per la prima volta, da Leonardo Da Vinci in uno dei suoi taccuini: «Li circuli de li rami segati mostrano il numero de li suoi anni e quali furono più umidi e quali più secchi secondo la loro maggiore o minore loro grossezza».

Una pratica forse già nota nella selvicoltura del tempo, che però fa perdere le sue tracce nei secoli successivi. Sarà infatti un fisico e astronomo del Novecento a rispolverare questa geniale intuizione vinciana, per cercare di risolvere un quesito di tutt’altra natura: esiste davvero una correlazione tra irraggiamento solare e andamento climatico terrestre? Ora, perché si arrivi con chiarezza a comprendere la relazione tra questi due temi, bisogna fare un salto di oltre quattrocento anni indietro nel tempo. È il 1610, infatti, quando Galileo Galilei scopre che la fotosfera, cioè la superficie del Sole, non è uniforme: zone luminose convivono con regioni più scure – le cosiddette macchie solari – rendendo irregolare e variabile l’irraggiamento diretto verso il pianeta blu.

Se queste macchie generino una sorta di ciclo di fasi solari – e quanto durino queste fasi di irraggiamento – è esattamente la domanda che porta lo scienziato statunitense Andrew E. Douglass, nel 1906, a rivolgere nuovamente l’attenzione verso la stella al centro del nostro sistema. Il fisico e astronomo, però, si trovava dinnanzi a un grosso ostacolo: i tre secoli di studi già effettuati sulla fotosfera (quelli che separavano Galileo da Douglass) non risultavano dati scientificamente significativi, se paragonati alla veneranda età della stella (4 miliardi e mezzo di anni). Quale elemento terrestre, dunque, poteva risultare più longevo di trecento anni e facilmente databile se non gli alberi?

Nessuno: ecco che gli anelli concentrici, la supposizione di Leonardo e la dendrocronologia iniziano a prendere uno spazio significativo nella scienza del ventesimo secolo. Uno spazio di certo differente da quello ipotizzato da Douglass, siccome le sue supposizioni, qualche tempo dopo si rivelarono del tutto infondate. Ma grazie a lui – e grazie agli alberi – oggi il sistema di datazione ci permette di conoscere la storia dell’inquinamento atmosferico locale, di ricostruire la temperatura nei secoli passati, stimando i periodi più caldi e quelli più freddi, analizzare l’ammontare delle precipitazioni, stimare il livello di alcuni inquinanti nell’atmosfera antica, calibrare le datazioni al radiocarbonio e datare oggetti e manufatti in legno, analizzando antiche tecniche artistiche e architettoniche. Come su un pentagramma di legno, così, ogni albero ci racconta la sua e la nostra storia.

Il termine sonder

di Riccardo Russo

Una curiosità: Sonder è un termine tedesco che significa straordinario, speciale.

Sonder però, è anche un neologismo della lingua inglese, inventato dallo scrittore John Koenig, raccolto nel The Dictionary of Obscure Sorrows, un dizionario che assegna termini concreti a emozioni che tutti noi proviamo, ma che non hanno ancora una parola che li identifichi.  

Sonder serve per descrivere la presa di consapevolezza di vivere in un mondo dove ognuno cammina nel proprio universo, o meglio, che ogni anima costituisce la stella centrale del proprio sistema.

È la chiarezza di sentire che ognuno costruisce una propria routine, delle proprie relazioni, vive sogni, delusioni, gioie e dolori esattamente come noi. Il significato del termine non si ferma qui: questa consapevolezza arriva a realizzare che siamo i «protagonisti» della nostra vita, del nostro universo, ma siamo anche i «personaggi principali» nella vita di pochi altri eletti, secondari nella vita di qualcun altro, quasi inesistenti per la maggior parte dei restanti, se non magari come comparse momentanee in giornate lavorative, o peggio ancora, come forme di arredamento per uno sfondo urbano, magari aspettando l’autobus o bevendo un caffè.

Si capisce che questo termine assume dunque una sfumatura evidente nel nostro modo di vivere la convivenza, in qualsiasi tessuto sociale.

Esplorare questa sensazione può invitare a praticare maggiormente l’empatia e a concentrarsi sui modi delle nostre interazioni, alla luce di un concetto che resta comunque semplice, ma allo stesso tempo profondo e difficile da vivere. La sfida filosofica di questa parola è proprio questa: uscire dallo spettro della nostra singola esistenza e abbracciare la coabitazione in sincronia dello stesso spazio.

I ragazzi della Mammoletta: qui abbiamo riscoperto la famiglia, l’amore e l’amicizia

di I ragazzi della Mammoletta

Le curiosità sulla nostra realtà.

Lo sai che noi facciamo parte di una famiglia chiamata la Mammoletta?

Lo sai che noi qui abbiamo riscoperto il significato delle parole «famiglia», «amore» e «amicizia»?

Ognuno coi suoi tempi.

La nostra fortuna è stata riuscire a fermarsi in questa società frenetica che non ti lascia il tempo di respirare perché ti propone continuamente nuove scappatoie per fuggire dalle piccole difficoltà quotidiane.

È più semplice di come pensavamo: ci siamo tolti questa maschera che ormai faceva parte di noi e ci stiamo affidando a nuove esperienze in cui ognuno di noi ha l’opportunità di scoprire i suoi hobby o talenti.

Lo sai che in comunità abbiamo imparato che si può essere amici anche senza il bisogno di sostanze o elementi di distrazione?

Come esempio abbiamo Lapo, che è già la terza estate che passa sull’isola e come, ormai da tradizione, ha trovato nel beach tennis il passatempo preferito dei suoi pomeriggi estivi. Si è creato un gruppo di amici di generazioni diverse al di fuori della comunità. Per lui l’amicizia non ha età, al contrario di molti che pensano che una persona nella vita debba aggrapparsi a gruppi della stessa annata.

Nella sua esperienza non è mai stato così: l’età non è mai stata presa in considerazione.

Il motivo? Perché le relazioni salvano il mondo e quando sono aperte, tutto diventa più affascinante.

Ci si può scambiare punti di vista interessanti in queste conversazioni vissute in periodi diversi.

Mentre giocano, oltre a scherzare, perché nessuno di loro è un professionista, parlano di politica e di quello che succede nel mondo.

Forse non si ricordava più, o non aveva mai conosciuto quella parte sana dell’amicizia che assume diverse forme di divertimento.

Lo sai che facciamo anche volontariato?

Per noi ragazzi abituati a non dare senza ricevere niente in cambio, questo concetto ha preso spazio nel nostro cuore.

Sentirsi utili per questa società, seminare del bene intorno a noi sperando che qualcosa cambi.

Abbiamo fatto volontariato con bambini speciali, in quest’attività chiamata «baskin», in cui siamo riusciti a strappare tanti sorrisi; ci hanno fatto spazio nella loro vita e in realtà anche loro ci hanno donato tanto.

Ci hanno regalato l’amore per la vita che loro sentono più di qualsiasi altro.

Lo sai che cos’è il «baskin», anche detto «baskin integrato»?

È un gioco che permette la partecipazione attiva di giocatori con qualsiasi tipo di disabilità (fisica e/o mentale) a condizione che essi siano in grado di tirare a canestro.

Volontariato lo facciamo tutti i giorni anche qui, nel nostro piccolo, sostenendoci e aiutandoci nei momenti di difficoltà.

Impariamo a non essere concentrati solo su noi stessi.

Crediamo che la nostra forza sia proprio questa: il gruppo.

Ad esempio, se devi riparare qualcosa che ti richiederebbe un anno di tempo, in gruppo, oltre a darci più punti di vista (la bellezza della diversità), il lavoro viene svolto in meno tempo e con più spensieratezza.

Ci diamo forza in questa battaglia. Siamo un forte esercito.

– Lucia Robuschi

“Tu lo sai che…
Se prendiamo in considerazione tutte le forme di vita presenti sulla faccia della Terra, noi esseri umani non valiamo niente. Facciamo un sacco di cose, costruiamo cose, pensiamo cose, ma a livello numerico non siamo niente. Ma proprio niente. Siamo lo 0,01% della vita sul pianeta. Niente.”

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