CBM Italia: affrontare la cura delle disabilità includendo chiunque ne abbia bisogno

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Il convegno del 24 maggio 2024, organizzato da CBM Italia e Fondazione Zancano, ha discusso il nesso tra disabilità e povertà, evidenziando la necessità di inclusione sociale, sostegno alle famiglie e investimenti in servizi umani.
Esiste un nesso tra disabilità e povertà, un circolo vizioso in cui una alimenta l’altra. L’impegno di CBM è di spezzare questo ciclo in Africa, Asia e America Latina attraverso progetti di salute, educazione, vita indipendente ed emergenza.
Esiste un nesso tra disabilità e povertà, un circolo vizioso in cui una alimenta l’altra. L’impegno di CBM è di spezzare questo ciclo in Africa, Asia e America Latina attraverso progetti di salute, educazione, vita indipendente ed emergenza.

CBM Italia: tra cura e inclusione

Sono stata invitata a partecipare al convegno dal dott. Massimo Maggio di CBM Italia (organizzazione umanitaria per la cura e prevenzione della cecità e per l’inclusione di persone con disabilità), che avevamo già intervistato sul Bullone.

Oltre a CBM, era presente il dottor Tiziano Vecchi di Fondazione Zancan (centro di studio e ricerca sociale), l’Arcivescovo di Milano Mons. Mario Delpini, il dottor Luciano Gualzetti della Caritas, don Mauro Santoro Presidente della Consulta Diocesana, il dottor Giovanni Merlo direttore di Ledha (Lega per i diritti delle persone con disabilità) Lombardia. È intervenuta anche Suor Veronica Donatello.

L’OMS segnala che nel mondo ci sono 1,3 miliardi di persone con disabilità, ovvero il 16% e si trovano perlopiù in Paesi a basso e medio reddito.

Esiste un nesso tra disabilità e povertà, un circolo vizioso in cui una alimenta l’altra.

L’impegno di CBM è di spezzare questo ciclo in Africa, Asia e America Latina attraverso progetti di salute, educazione, vita indipendente ed emergenza.

Negli ultimi anni in Italia si è raggiunto il livello record di oltre 5,6 milioni di persone in povertà assoluta. È noto che le famiglie di persone con disabilità hanno un maggior rischio di povertà o di esclusione sociale.

Lo studio ha coinvolto 300 persone in un dialogo per capire le specifiche necessità pratiche delle persone, ascoltando le famiglie e la loro fatica di vivere. In sostanza queste chiedono: «Siateci prossimi, riconosceteci per quello che siamo, con i nostri nomi e la nostra dignità individuale».

CBM, insieme a Fondazione Zancan, ha condotto lo studio sulla disabilità in Italia, i cui risultati vengono presentati qui. È emersa la necessità di uscire dal modello medico e di entrare in quello etico-sociale, per cui serve:

1. Abbattere i muri relazionali che isolano e quelli istituzionali spesso insufficienti a rispondere alle esigenze. L’isolamento è spesso un deficit di conoscenza rispetto a diritti e opportunità come accesso a beni e servizi, necessità di orientamento e affiancamento per chi è svantaggiato da un punto di vista socioeconomico e socioculturale. È necessario rafforzare la cultura dell’inclusione e diffondere la consapevolezza sui bisogni, ma anche sulle risorse. Le famiglie che non ricevono aiuti sono il 45,8%. Lo studio ha ascoltato le famiglie più fortunate, quelle che ricevono l’aiuto e ha chiesto loro se è sufficiente o se si può migliorare.

2. Investire in servizi promotori di umanità. Risulta necessario rendere accessibili aiuti in qualità di servizi che mettano al centro la componente umana, anziché contributi economici. È inoltre basilare rispondere alle esigenze delle famiglie, prevedendo un supporto psicologico e un sollievo dal carico di cura per il caregiver, oltre alla persona con disabilità, in termini di cura, mobilità, socializzazione, formazione/lavoro. È importante personalizzare le risposte in una logica più inclusiva.

3. Riconoscere e valorizzare le capacità di ogni persona. Infatti, ognuno può generare benefici per gli altri. Vanno promosse queste capacità per evitare l’isolamento. È importante quindi, conoscere le risorse delle famiglie con persona con disabilità, evidenziarne il valore, facendole conoscere nelle reti comunitarie e istituzionali di riferimento. Si possono così rafforzare le opportunità di inclusione sociale e lavorativa.

4. Promuovere opportunità per la vita e il lavoro. Le famiglie esprimono preoccupazioni per il futuro, quando genitori e fratelli non potranno più prendersi cura della persona. Questo problema è sentito maggiormente da famiglie con disagio socio-economico e culturale. È necessario facilitare i passaggi dalla famiglia ad altri contesti di vita, investendo sulla dimensione relazionale e lavorativa. Il lavoro risulta di primaria rilevanza, ma è altresì importante il sostegno alla conciliazione dei tempi lavorativi e di cura.

Gli Art. 3 e 4 della Costituzione riconoscono pari dignità sociale e il diritto e il dovere al lavoro. Inabili e minorati hanno diritto al massimo possibile e, allo stesso tempo, hanno dei doveri come tutti.

Non c’è grande differenza tra Nord, Centro e Sud Italia.

Che cosa aiuta? Non tanto e solo i soldi, quanto un intervento socio sanitario. L’assistenza ricade ancora interamente sulle famiglie, in particolare sulle madri, che a loro volta devono lavorare. La chiave è aiutare ad aiutarsi, considerando l’altro come persona. Nel ‘900 si davano solo aiuti economici senza pensare alle specifiche esigenze di ognuno.

Il filosofo Emmanuel Levinas sul saggio Totalità e infinito scrive: «Quando l’altro diventa estraneo a chi l’aiuta, anch’egli diviene estraneo a sé stesso».

Una mamma, Chiara, venuta apposta da Roma con sua figlia Benedetta, con disabilità psichica lieve, fornisce la sua testimonianza. Benedetta annuncia subito che è emozionata e il rumore degli applausi la innervosisce. È bello notare che da allora in poi la platea fa attenzione a non applaudire per non disturbare la sensibilità di Benedetta, ma tutti noi muoviamo le mani in alto per mimare un applauso silenzioso.

Chiara racconta di avere un’altra figlia, Camilla, con disagio grave. Dice: «La disabilità di un figlio diventa anche la tua disabilità e di tutta la famiglia. Vedi il mondo con occhi diversi. Gli altri ti guardano con occhi diversi. Non fai fare ai tuoi figli attività, come a tutti gli altri, ma terapie. Mia figlia urla, si butta a terra, cammina strisciando. Quando mangia, lancia gli oggetti. Allora cominci ad allontanarti dal contesto sociale. Gli altri sono a disagio, si tengono alla larga. Allora ti chiudi in casa e questa diventa la tua prigione. Perché la disabilità ti rende diverso. Ti isola, ti uccide. Mia figlia ha 22 anni e so che non potrà mai conseguire una laurea, come tutti i ragazzi qui, in questa Università. Non avrò mai questa soddisfazione né io, né lei. Otteniamo soddisfazioni diverse, ma enormi, come quando ha imparato a nuotare da sola. Si affronta stanchezza e sofferenza nelle difficoltà quotidiane. Per fortuna a scuola hanno una socialità normale, vivono con gli altri. Quando diventano maggiorenni si apre un baratro. Si sperimenta una maggiore pesantezza. I Servizi Sanitari ci seguono fino alla maggiore età, dopodiché tutto scompare. Non ci sono organi o figure di riferimento. Non c’è supporto psicologico né vengono date informazioni per potersi orientare.

Benedetta partecipa ad alcuni laboratori ed è contenta di stare con gli altri. Mentre Camilla ha una disabilità molto grave e ha necessità di assistenza sulle 24 ore. Abbiamo dovuto aspettare anni per poterla inserire in un Centro Diurno. Ora è felice, chiede tutte le mattine di andare. Anche i ragazzi diversi hanno diritto ad essere felici. Siamo stati fortunati perché la nostra Comunità Parrocchiale ha costruito un ponte con le famiglie e dà diverse opportunità come i Campi Vacanze. Benedetta è partita da sola ed era molto soddisfatta della sua indipendenza, le ha dato sicurezza. Camilla è stata accompagnata da noi genitori. Si è sentita accettata ed era contenta anche lei. La disabilità ti rende diverso, ma impari ad accettarlo. L’isolamento e la discriminazione, no».

Questa mamma ci ha commossi. Ha trasmesso a tutti noi le sue enormi difficoltà quotidiane, affrontate con il coraggio e la tenacia di non arrendersi mai per l’amore immenso che nutre per le sue figlie.

Presentazione della ricerca “Disabilità e povertà” all’Università Cattolica di Milano

Il Presidente della Consulta Santoro ribadisce che tutta la famiglia è coinvolta. I sogni e i desideri cambiano. È importante: non lasciarli soli; farli partecipare alla vita della comunità; sconfiggere la logica paternalistica della pena.

Quindi le persone con disabilità non sono solo un costo, un peso come sono visti dalla nostra cultura che considera scarto ciò che non serve, ma vanno promossi e valorizzati come risorse e va promossa la loro inclusione passando dai loro bisogni ai loro desideri. Bisogna perciò incentivare l’incontro. Gli operatori dovranno relazionarsi con le mamme di questi bambini o ragazzi speciali, chiedendo loro cosa amano e che cosa li disturba, offrendo così un approccio personalizzato. In tal modo nasce il senso di comunità inclusiva. «Dio agisce in tutti: a ciascuno è data una possibilità, un talento per il bene comune». La Consulta Diocesana affronta la disabilità in modo trasversale, lavorando con la Caritas, le Istituzioni e le Associazioni del terzo settore. È un lavoro di rete più efficace.

Il dottor Gualzetti di Caritas ribadisce l’importanza di incontrare e ascoltare le persone per riconoscere ciò che emerge, creando alleanze tra le famiglie sulle quali ricade il maggior carico e costituire dei servizi personalizzati di accompagnatori e caregiver. Tutti dobbiamo considerarci parte della comunità che riconosce la vita di ciascuno per restituire qualcosa.

Il dottor Merlo di Ledha riporta che la spesa per l’assistenza educativa scolastica in Italia è di un terzo inferiore a quella della media europea.

La povertà e la solitudine non sono solo una questione di reddito, ma di condizioni di vita. Il modello di welfare scarica tutto sulle famiglie. I soldi, essendo limitati, vengono dati inevitabilmente a chi sta peggio. Questo modello crea povertà. Adesso c’è un miglioramento con la legge 112, che istituisce un Fondo Nazionale stabile per assistere persone con disabilità grave, prive di sostegno famigliare.

Va dato più spazio alle persone. Un ragazzo di 30 anni si è presentato ai servizi sociali chiedendo un alloggio perché vuole «divorziare» dai suoi genitori e rendersi indipendente. Ma difficilmente si trova una sistemazione per lui, perché c’è carenza di alloggi e vengono dati alle situazioni più disperate. Al centro dovrebbe poter esserci il progetto di vita delle persone. I 650 euro mensili erogati ai caregiver di disabili gravi sono qualcosa, ma non sufficienti. La comunità deve cambiare.

Suor Veronica chiede a cosa servono questi dati, come si utilizzano? Al centro c’è il Vangelo. La comunità deve essere una casa per superare lo stigma sociale. La persona è costituita da corpo, anima, spirito. Il limite è costitutivo dell’uomo. Ma l’unicità di ognuno deve permettere il fiorire del suo progetto di vita e la vocazione è il gusto per la bellezza e l’eternità. È importante costruire progetti con loro e per loro. L’aiuto è previsto fino ai 18 anni nelle scuole, poi vengono lasciati soli a carico delle famiglie, a volte in luoghi poveri e pericolosi.

Per fortuna esistono anche progetti di vita fino a fine vita, come gli Hospice cattolici per persone con disabilità. La cultura deve avere il gusto e il senso del «noi».

L’Arcivescovo Delpini chiude, parlando di schizofrenia sistemica: si pronunciano tante parole di attenzione all’inclusione, poi il nostro sistema nella realtà propone un modello inospitale per chi non tiene il ritmo. Si incrementa questo divario invece di diminuirlo. Questo ci sconcerta. Si incentiva la spesa per distruggere e uccidere nelle logiche di guerra e anche si sviluppa l’Intelligenza Artificiale e la tecnologia per fare del male. Tante persone rimangono ferite, mutilate dalle armi e richiedono assistenza.

Qual è la definizione di felicità? Si dice che tutti ne abbiamo diritto. Ma che cos’è? Dove si trova? È un dono. Ognuno ha storie diverse. Tutti hanno un dono. È necessario riconoscere questo dono e apprezzarlo. A volte ci poniamo aspettative diverse, che non vengono esaudite. Il rapporto con l’altro mi fa scoprire chi sono, qual è la mia verità. Scopro che posso amare e sono amato. La Comunità Cristiana deve farsi carico di questi rapporti personali. È proprio la quotidianità relazionale che ci libera dall’isolamento. Esistono tante barriere ancora e molto lavoro da fare, ma c’è la speranza di superarle procedendo in questa direzione.

– Emanuela Niada

Che cosa aiuta? Non tanto e solo i soldi, quanto un intervento socio sanitario. L’assistenza ricade ancora interamente sulle famiglie, in particolare sulle madri, che a loro volta devono lavorare. La chiave è aiutare ad aiutarsi, considerando l’altro come persona.”

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