“Gli altri la chiamano malattia, per me contiene una forza che in qualche modo mi salva”, intervista a Beatrice Sciarrillo

Autori:
La B.Liver Lisa intervista Beatrice Sciarrillo, autrice di "In trasparenza l’anima", romanzo che esplora la complessità dei disturbi alimentari con uno stile lucido e unico.
Una foto di un fiocchetto lilla, simbolo della lotta contro i DCA.

In trasparenza l’anima: Beatrice Sciarrillo si racconta

Beatrice Sciarrillo è nata a Torino nel 1998. Diplomata alla scuola di scrittura Molly Bloom di Roma e laureata in Beni Culturali, è ora all’esordio con In trasparenza l’anima.

Beatrice Sciarrillo (Torino, 1998) è nata a Torino. Laureata in Beni Culturali, ha
studiato editoria e attualmente frequenta a Roma un master biennale di Scrittura
Creativa
presso l’Accademia Molly Bloom. Scrive di libri e arte su Nuovi Argomenti, L’Indice dei libri del mese, Letterate Magazine.
Illustrazione di Chiara Bosna.

Innanzitutto, a partire dal titolo del suo romanzo d’esordio, riesce a raccontarci il motivo di questa scelta, e che relazione ha con lo sviluppo e l’argomento principale del libro?

«In Trasparenza l’anima viene dalla conclusione di un esergo estrapolato da un romanzo di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, e a dir la verità, è stata una mia docente a suggerirmelo. Questa frase indica come anche quella donna guardasse sé stessa attraverso lo specchio per scorgervi in trasparenza l’anima. Il concetto riprendeva molto bene le dinamiche che si creano all’interno di questo romanzo tra ragazze che guardano l’una all’altra solamente dentro i corpi. Prendiamo d’esempio Anita, la protagonista, che davanti a una ragazza, Flavia, la analizza attraverso il corpo e fa difficoltà ad andare oltre a questo. In fondo, è come se tutte queste ragazze nel momento in cui guardano corpi, stessero cercando qualcosa di più interno, ma proprio nell’impossibilità di trovarlo focalizzano l’attenzione sull’aspetto. Esercitano sul corpo un controllo non essendo capaci di entrare in contatto con la loro vera e profonda sofferenza».

Dato il tema di certo non leggero, che cosa l’ha spinta a scrivere questo romanzo e come si è sentita a riguardo durante e dopo?

«Questo romanzo è la metamorfosi narrativa di una mia esperienza più autobiografica. Per molti anni sono stata malata di Disturbi Alimentari; ho vissuto mesi in reparti ospedalieri, in comunità e case di cura, quindi, per forza di cose, alcuni dei momenti che io racconto li ho vissuti in prima persona, un po’ ripresi dalla memoria, un po’ esasperati. Quando ho iniziato a scrivere questo romanzo, avevo l’obiettivo di scrivere più o meno arte. Solo dopo mi sono resa conto che mi attenevo molto a descrivere la mia vita con la malattia; ho usato anche fantasia, a partire soprattutto da Flavia. Nessuno dei personaggi è autobiografico, ma riassumono in loro i tanti caratteri comportamentali e psicologici che ho sperimentato in prima persona e ho ritrovato in altri. Non reputo che questo romanzo mi abbia salvato la vita, piuttosto mi ha permesso di comprendere esperienze e meccanismi la cui analisi mi ha fatto stare meglio».

Come mai ha deciso di distaccare così tanto la sfera emotiva (si nota dallo stile di scrittura) sia dal lettore sia, forse, da lei medesima come narratrice?

«Questo romanzo di certo si caratterizza per assenso di emotività. È tutto molto inespresso, tutto molto cristallizzato; le figure stesse hanno difficoltà ad esprimere veramente i propri sentimenti o perfino pensieri. Ho deciso di usare questa forma con scopo di chiarimento razionale della dinamicità. I Disturbi Alimentari caratterizzano una profonda difficoltà di comunicazione. Un romanzo con troppe parole, un romanzo troppo emotivo, in cui le emozioni fossero troppo svelate, troppo rivelate nel lettore, non avrebbe avuto senso. Di certo la scrittura è influenzata da varie letture concentrate durante il periodo della mia adolescenza. Autori, autrici sulla stessa traccia di Pavese, Fenoglio, o Marguerite Durand che rendevano lo sguardo molto freddo.  Ritengo però che abbia avuto un ruolo fondamentale anche la “scenografia” ospedaliera, il “teatro” dove si svolge tutto: un ambiente asettico, bianco, privo anche di inclusività, dove tutto è completamente anestetizzato e rende ancora di più la malattia priva di “però”, una malattia pubblica».

Lei descrive la malattia, sia in varie interviste e presentazioni sia nel libro stesso, come un essere esterno. Prendendo in esame questa definizione, potremmo illustrare il disturbo come totem, o come lei spesso dice «religione», e trovarci così il motivo per il quale è così difficile riconoscerlo?

«Secondo questa metafora, le ragazze è come se fossero infatti devote a una divinità: sono tutte fedeli ancelle di questa malattia. Tentano di sospendere il mondo attraverso il controllo del proprio corpo, rendendo impossibile vivere di, e in qualcosa. Fino all’adolescenza, un periodo di generale incertezza e formazione dell’essere, è ancora possibile costruirsi e ricostruirsi. Alla soglia dei vent’anni, ci si trova in difficoltà dentro un mondo stabile e definito. Da sempre, è l’adulto a guidare, al giorno d’oggi attraverso ruoli ben precisi: l’adulto genitore, l’adulto medico, l’adulto docente. La verità che pochi hanno il coraggio di ammettere è proprio la fragilità di questo adulto, e trovandola, percependola nel punto di riferimento, alcune persone scelgono di credere, di rifugiarsi nella malattia. L’identità viene rivelata loro nel momento in cui vengono diagnosticate come “ragazze anoressiche”, come ragazze con un Disturbo Alimentare grave, e loro si appiccicano la definizione addosso, non la lasciano più andare. La malattia è qualcosa che loro considerano come propria e che fanno molta difficoltà ad allontanare».

Considerando per l’appunto la malattia come qualcosa al di fuori che coinvolge e/o contamina l’individuo, che ruolo ha il mondo intorno ad esso?

«Innanzitutto bisogna inquadrare il mondo di cui stiamo parlando e a cui ci riferiamo. Come già detto prima, la malattia si radica nell’impossibilità di trovare una risposta di alcune dinamiche o emozioni del mondo che sta fuori. Le ragazze, quindi, si mettono a cercarla nel singolo del proprio passato e anima, e non riuscendo a trovare queste risposte interne, vanno a porre il loro sguardo sull’apparenza, il corpo, e qui sì che il mondo gioca un ruolo molto importante nel dover guidare alla cultura. Abbiamo visto un mondo devastato da guerre e pandemie. Per forza di cose l’economia, anche sanitaria, ne ha risentito. I disturbi mentali dopo il corona virus sono aumentati esponenzialmente. I dispositivi elettrici e social media negli anni di isolamento sono diventati l’unica possibilità d’interazione sociale, e questi, come strumenti di comunicazione, lasciano poca libertà di interpretazione personale su questioni come ideali di bellezza e “perfezione”. Tra i tanti aspetti di sicuro ci dobbiamo rendere conto di vivere in una società fortemente “grassofobica”, dove il grasso viene inquadrato come tabù. Siamo bombardati da immagini, e chi ne risente di più sono i preadolescenti. In questa fase, i bambini stanno diventando ragazzi. Hanno il bisogno di confrontarsi, e non solo con i propri cambiamenti corporei. Trovano intorno a loro un mondo che li vuole il più perfetti e simili possibili, senza una figura a mostrare la via dell’equilibrio».

Nel libro lei ha dato una visione molto oggettiva e fredda del disturbo, che toglie libertà alla persona coinvolta, mostrando così più lucidamente alcune dinamiche. Dalla sua prospettiva invece, crede ci sia speranza autentica di riprendersi il proprio io e vita? Dei pensieri, delle parole, degli ideali, che fungano da salvezza?

«Nel mio testo ho deciso di non voler mettere il cosiddetto bel fine, o rischio di cadere in cliché. Trattandosi anche di un testo breve, il principale motivo di questa scelta è il lasso spazio-temporale molto limitato. Non ritengo che in un disturbo mentale sia possibile riuscire a vedere in così poco la luce. Nel romanzo ci sono tanti piccoli momenti di speranza e gioia che iniziano a nascere nel momento in cui questa Flavia se ne va e Anita rimane sola. Non ha lo specchio immediato con cui potersi, doversi, confrontare. Un secondo aspetto, è il non tendere a semplificare la storia di Anita e di tanti ragazzi come lei. Non semplificare la storia di una malattia. D’altra parte ritengo che un’uscita da questa malattia possa essere considerata come una foresta molto oscura che ci prende dentro e ci consuma. È possibile uscirne, ma non nell’ottica di guarigione. Il termine “guarigione” a me non fa impazzire, essendo, dal mio punto di vista, un dover risolvere, aggiustare qualcosa che prima era storto. La malattia è un’espressione del passato, e non reputo giusto debba cadere nel dimenticatoio. È essenziale togliersi dall’identità propria della malattia, non ripudiando però il punto di partenza, senza il quale il resto della strada chiamata “vita” non può essere costruita».

– Beatrice Sciarrillo

L’identità viene rivelata loro nel momento in cui vengono diagnosticate come “ragazze anoressiche”, come ragazze con un Disturbo Alimentare grave, e loro si appiccicano la definizione addosso, non la lasciano più andare. La malattia è qualcosa che loro considerano come propria e che fanno molta difficoltà ad allontanare

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