B.Liver Story, Lucia: “Attacchi di panico, ma poi scoprono una neoplasia”

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La B.liver Lucia affronta un viaggio dall’angoscia degli attacchi di panico alla diagnosi di un tumore benigno. Un’esperienza dura che le ha insegnato a riappropriarsi del corpo e dei pensieri.
Lucia Robuschi b.liver story
Una foto di Lucia Robuschi.

La B.Liver Story di Lucia: il viaggio verso la diagnosi e la rinascita

A gennaio 2023 ero da Tezenis a Bologna. Dovevo comprare delle mutande, perché ormai le mie erano vecchie, e crescendo ho capito che investire nell’intimo, in realtà, può migliorare notevolmente la qualità della propria vita quotidiana. Ma il punto non sono le mutande. Avevo gli auricolari, probabilmente ascoltavo canzoni depresse, che sono quelle che mi fanno stare meglio.

Sono entrata, ho trovato le mutande che prendo di solito, nere senza cuciture, semplici ed efficaci, però non so mai se io ho la S o la M. Ogni volta ho questo dubbio esistenziale, e quindi sono andata in camerino per provarle. Mi sono svestita e ho accatastato la giacca, i pantaloni e il maglione sullo sgabellino minuscolo che mettono sempre nei camerini. Ho iniziato provando la S, e mi andava. Poi ho provato la M, e mi andava anche quella. Credo che la taglia delle mutande senza cuciture di Tezenis sia molto relativa, ma sono una Bilancia, e quindi mi sembrava una scelta fondamentale. Ho riprovato la Small. Ero mezza nuda, faceva caldo, luci forti, fredde, avevo gli auricolari e sotto c’era la musica che mettono sempre in quel tipo di negozi. Credo che sia per confondere i clienti, e quindi fargli fare gli acquisti più velocemente. O almeno così mi avevano detto. Beh, se questa era l’intenzione dei responsabili marketing di Tezenis, sono contenta di comunicare loro che con me ce l’hanno fatta.

A un certo punto ho sentito una sensazione strana, una forte pressione percorrermi e salirmi alla testa. Non sapevo dov’ero, sapevo solo che c’era qualcosa che non andava. Mi sono guardata allo specchio e mi è salita la nausea. Non sapevo chi era quella lì mezza nuda con le mutande nere senza cuciture, non sapevo neanche se erano S o M. Mi dava tutto fastidio, la musica mi sembrava un rumore assordante, senza senso, poteva essere Laura Pausini o gli Acdc che non cambiava niente. Era solo un trapano. Mi sono tolta gli auricolari, ma ho sentito altro rumore, ho chiuso gli occhi, mi sono messa le mani sulle orecchie e mi sono accovacciata in un angolo del camerino. Dovevo uscire. Mi sono rivestita, ho lasciato le mutande nel camerino. Sono uscita correndo. Non riuscivo a stare in piedi, non capivo in che strada ero, le persone mi venivano addosso. Dovevo sedermi. Ho visto una pensilina dell’autobus, e mi sono accovacciata lì. Sono rimasta venti minuti, o forse due minuti, o forse quaranta. Poi mi è passata la nausea, ho capito dov’ero, chi ero, mi sono alzata, e sono andata a cena dai miei amici. Gli ho detto che mi era successo qualcosa di strano, ma non mi ricordavo neanche cosa. Questa «cosa» è progressivamente diventata la mia normalità. Mi succedeva circa tre volte al giorno, dovunque, in qualsiasi momento.

Durante le presentazioni in università, mentre guidavo, in cima agli scogli in Sardegna, in metro a Parigi. Era un periodo tosto, e la mia psicologa mi diceva che probabilmente erano attacchi di panico. Non ci capivo niente, ma ho pensato che forse, in realtà, in quei momenti io avevo un accesso privilegiato al mio inconscio. Quel groviglio di pensieri talmente accumulati che perdono di senso, ma che Freud dice che hanno un effetto inevitabile sui nostri pensieri quotidiani, i nostri comportamenti, i nostri problemi. Forse non riuscivo più a contenere quel groviglio, tanto che dal retro del mio cervello risaliva, e si palesava davanti ai miei occhi, tra me e la realtà. Ho iniziato a scrivere tutto quello che pensavo in quei momenti. Poi lo rileggevo, e non aveva alcun senso. Ma proprio parole inventate, riferimenti a Cannavacciuolo, senza aver mai guardato Masterchef. Una volta in metro ho sentito l’urgenza di cercare una cosa su Google. Ma poi non riuscivo a guardare lo schermo, per cui ho rimesso il telefono in tasca. Qualche ora dopo l’ho riaperto e sulla barra di Google c’era scritto «gocce per dormire». Spesso pensavo a una provetta di vetro nella quale dovevo infilarmi ma, pur contorcendomi, non ci riuscivo. Ogni settimana facevo terapia, ma non cambiava niente. Forse non c’era molto da fare, forse stavo solo diventando pazza.

A giugno ho avuto un attacco come gli altri, ma poi ho vomitato. Stavo parlando con il ragazzo di mia cugina, che mi raccontava della sua tesi di fisioterapia. Da scienziata politica non capivo niente dei termini tecnici che usava, ma poi a un certo punto non capivo neanche quelli comuni. Vedevo una bocca che si muoveva, e io che me ne allontanavo, come in un tunnel, roteando.

Mentre mi parlava sono corsa via, e ho vomitato. Ho vomitato, mi ha girato la testa, e sono rimasta a guardare il prato sul quale avevo vomitato. Come se avessi espulso il groviglio che avevo in testa. Forse me ne ero liberata, ma invece il giorno dopo è risalito.

Sono andata da uno psichiatra, ho provato a spiegargli quello che avevo. Mi ha chiesto se fumavo, e gli ho detto che negli anni precedenti fumavo le canne, ma che da quando avevo gli attacchi avevo smesso. A quel punto mi ha fermata e mi ha detto: a posto, prendi gli antidepressivi. Li ho presi, ho dormito un sacco, ero sballata, ma poi mi ci sono abituata e non avevo più attacchi. Mi sembrava incredibile, dopo sette giorni ho realizzato che avevo avuto un’intera settimana attaccata alla realtà, stabile. Forse ero depressa, ma non completamente pazza. Poi sono andata in Sardegna e mentre ero in macchina con mia mamma le ho dovuto dire: «stai zitta per favore». Mi sono accovacciata sul sedile, ho pianto, mi sono coperta le orecchie, ho chiuso gli occhi e poi mi sono addormentata.

Era finita l’estate, dovevo tornare a Parigi, la città in cui studio, e prima di partire mi sono detta di fare un check generale da vari dottori. Sono andata dal dentista, dalla dermatologa e poi dall’oculista. Sono miope da quando ho 8 anni, so a memoria tutte le macchine e i test che ti fanno fare, so che vai, ti siedi su una sedia enorme, ti fanno vedere una casetta rossa mentre ti sparano aria negli occhi, e poi vai a casa e di solito mi è calata la vista. Stavolta l’oculista ha tirato fuori un macchinario diverso dal solito. Non lo conoscevo mica. Mi ha guardata e mi ha detto: facciamo che prima di partire vai a fare una risonanza magnetica.

Il giorno dopo sono andata, mi hanno infilata in un tubo bianco, tipo film di fantascienza. La risonanza doveva durare dieci minuti ma ne è durata quaranta. O almeno così mi hanno detto, perché mentre ero infilata in quel tubo c’erano dei rumori fortissimi, penetranti, e le luci bianche, come nel camerino di Tezenis praticamente. Non ho potuto accovacciarmi, perché non ti puoi muovere di un millimetro, ma mi sono lasciata andare, e mi sono addormentata.

Un’ora dopo, alle nove di sera, ero seduta di fronte a un medico pelato nel reparto di neurochirurgia dell’ospedale di Parma. Mi ha fatta entrare nel suo ufficio, e velocemente mi ha detto che avevo una neoplasia. Io gli ho risposto: «che cazzo è una neoplasia?», senza dire «cazzo», ma era sottinteso dal mio tono di voce. Ha girato lo schermo del computer e mi ha fatto vedere il mio cervello. Era un organo, come un braccio, come il pancreas, i polmoni o il naso. Ma c’era uno strano corpo sul lato sinistro. «Neoplasia significa tumore», mi ha detto. Poi ha subito aggiunto: «benigno, eh!». Era quel groviglio, di fronte ai miei occhi. E non era nella mia anima o nel mio immaginario, ma era in quello schermo, nelle mie meningi, e a quanto pare schiacciava il mio cervello da quindici anni, tanto da far partire scariche elettriche tra i miei neuroni. Quel groviglio era un tumore e quegli attacchi di panico erano crisi epilettiche. Non ero io a essere pazza, era il mio corpo a essere malato. Era un problema tangibile, ergo, rimovibile.

Rimuoverlo non è stato facile: mi hanno aperto il cranio, sono stata cieca da un occhio per un mese, ho preso quindici chili in due mesi a causa delle cure cortisoniche, e potrei andare avanti per altre sei righe con gli effetti collaterali. Ma quel momento in cui ero seduta di fronte al medico pelato, quel momento in cui ho visto la mia malattia, lì tutto, per quanto pesante, è diventato sopportabile. Magari avevo un occhio solo, 15 chili in più, 8 medicine al giorno da prendere, ma era per riappropriarmi del mio corpo, e quindi anche dei miei pensieri. Da quel giorno quando c’è qualcosa che non va, ho imparato a ripetermi: «ho un corpo e sono sotto a un cielo, tutto il resto si fa».

– Lucia Robuschi

“Ha girato lo schermo del computer e mi ha fatto vedere il mio cervello. Era un organo, come un braccio, come il pancreas, i polmoni o il naso. Ma c’era uno strano corpo sul lato sinistro. «Neoplasia significa tumore», mi ha detto. Poi ha subito aggiunto: «benigno, eh!». Era quel groviglio, di fronte ai miei occhi. E non era nella mia anima o nel mio immaginario, ma era in quello schermo, nelle mie meningi, e a quanto pare schiacciava il mio cervello da quindici anni, tanto da far partire scariche elettriche tra i miei neuroni. Quel groviglio era un tumore e quegli attacchi di panico erano crisi epilettiche. Non ero io a essere pazza, era il mio corpo a essere malato.”

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