La libertà nella gabbia: il cortocircuito del Disturbo Alimentare
Quando ho letto uno dei temi di questo mese, mi si è acceso un mezzo sorriso in volto. Perché parlare di libertà e sottomissione, bene e male, vivere nella contraddittorietà è parte integrante del vivere con un Disturbo Alimentare. E tante volte ho fatto un’immensa fatica a risolvere questo enigma.
L’ho sempre chiamato «cortocircuito», un po’ come la pagina Error 404, che guarda caso segnala proprio il vuoto, la mancanza, l’invisibilità di qualcosa. Qualche giorno fa, sul profilo di Aurora Caporossi, ho letto che la mancanza occupa un posto. Esiste. È palpabile. Semplicemente c’è, ha uno spazio. Credo che sia questa la prima grande contraddizione tra esistenza e non esistenza, corporeità ed essere etereo, un grosso groviglio che si estende fino all’essenza intima della sofferenza da DCA. E che ha a che fare con le ragioni e i motivi che accorrono durante la malattia.
Il primo cortocircuito lo vedo nella sua stessa esistenza: controllare per essere liberi. Imporre rigide regole per disfarsi della gabbia. Appesantire per alleggerire. Solitamente, nella maggior parte dei casi, soffrire di un DCA significa anche che si ha la necessità di controllare qualcosa per sentirsi meglio, liberi da una certa sofferenza. Ma quella non è la libertà agognata e promessa, quella è una cella a doppia mandata che ti chiude in un vicolo senza uscita, perché prima che tu possa accorgertene, la malattia ti ha rubato le chiavi.
E qui la seconda contraddizione: la tua libertà, quando hai un Disturbo Alimentare, è la sottomissione alla malattia. È lei che decide se puoi uscire o no, il controllo che pensi di poter esercitare è il «suo» controllo. Mascherato dalle tue mani. È lei a controllare te, non il contrario.
Qui cade la terza contraddizione: il Disturbo Alimentare è il modo che hai trovato per sopportare la tua esistenza. Un metodo che il tuo cervello ha introiettato per salvarti, «distruggendoti». Un meccanismo di sopravvivenza anti-conservativo, che è come dire: «un meccanismo di sopravvivenza che come arma usa proprio la morte», lì dove bene e male si mescolano, e incasellare qualcosa nella propria tabella si fa sempre più difficile. Probabilmente anch’io necessito di incasellare per sentirmi libera, è uno dei residui che il mostro ha portato con sé. Una bugia o, meglio, un’illusione. Questa è la mia risposta al groviglio, all’enigma, al paradosso: l’illusione. Quella di poter essere finalmente liberi, di poter controllare la propria vita, di aver trovato il poker d’assi nascosto nella mano; e poi, quando ti volti, in realtà noti che hai solo quattro carte stracce che non servono ad altro che a costringerti a giocare di nuovo.
Una grande maschera illusoria che confonde la libertà per sottomissione e il bene per il male. Quando la maschera della malattia sarà pronta a cadere, allora l’illusione tornerà a manifestarsi come realtà, il che significa scoprire di avere avuto sempre in tasca le chiavi di quella maledetta gabbia e poter finalmente tentare di uscire dalla nostra caverna.
– Cristina Procida
“L’ho sempre chiamato «cortocircuito», un po’ come la pagina Error 404, che guarda caso segnala proprio il vuoto, la mancanza, l’invisibilità di qualcosa. Qualche giorno fa, sul profilo di Aurora Caporossi, ho letto che la mancanza occupa un posto. Esiste. È palpabile. Semplicemente c’è, ha uno spazio. Credo che sia questa la prima grande contraddizione tra esistenza e non esistenza, corporeità ed essere etereo, un grosso groviglio che si estende fino all’essenza intima della sofferenza da DCA. E che ha a che fare con le ragioni e i motivi che accorrono durante la malattia.“