Crisi globale e nuove sfide, come reinventare il futuro
Mauro Magatti, sociologo ed economista, è professore ordinario di Sociologia presso la facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Dirige il Centro di Ricerca ARC (Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change) ed è editorialista del Corriere della Sera.
Nel mondo si sta chiudendo un’epoca storica di allargamento dei diritti individuali e sociali. Cosa ha messo in moto negli anni questo radicale cambiamento che sembra aver incrinato il rapporto tra libertà e dignità?
«L’epoca della globalizzazione espansiva è giunta al termine. È stata una fase storica entusiasmante, non c’è dubbio, nella quale sembrava ci fossero più opportunità per tutti. E il mondo in effetti ha fatto un grande salto: il PIL è raddoppiato, sono aumentate le interconnessioni, tanti hanno migliorato le loro condizioni di vita. Tali aspetti positivi, tuttavia, si sono ben presto dovuti scontrare con quella che si è rivelata essere una grave crisi antropica, di scomposizione, frammentazione, disgregazione e, allo stesso tempo, standardizzazione. Una crisi che riguarda i rapporti sociali (la crisi delle democrazie, le disuguaglianze, la diffusione dell’odio sociale), il rapporto con la natura (crisi ambientale, riscaldamento globale), le relazioni internazionali (moltiplicazioni di guerre e rischi), la stabilità psichica e le relazioni intersoggettive (spinta all’isolamento e alla solitudine). Dopo una stagione di grande crescita, ci ritroviamo dunque nel bel mezzo di un’altrettanto grande trasformazione. Gramsci parlava di interregno, e definiva così quella fase in cui un assetto capitalistico viene meno senza che ne esista già uno nuovo pronto a rimpiazzarlo. Ecco: nell’interregno, si rischia la nascita di mostri, e, al fine di evitarlo, oltre a restare vigili, dobbiamo spingere lo sguardo avanti a immaginare nuovi equilibri».
Rispetto a quella che era centralità del lavoro e dell’impegno nella comunità, nella vita di molte persone, anche in larghe fasce dei ceti popolari, la ricerca del profitto e la chiusura in gruppi di interesse sono diventati un fattore esistenziale. Cosa abbiamo sbagliato nell’opporci a questa deriva?
«Non abbiamo alle spalle una stagione in cui ci si dedicasse particolarmente agli altri o ci fosse tutta questa attenzione al sociale. Tuttavia, nella fase espansiva, di crescita, e che ha comunque seguito una logica del profitto e quindi individualistica, c’era margine e spazio anche per chi intendeva riscostruire il legame sociale, prestare attenzione all’ambiente e via dicendo. Gli shock che ci sono piombati addosso e la crisi in cui siamo finiti, viceversa, hanno accentuato le difficoltà di tanti: aumentano povertà e instabilità, e molte persone non riescono ad arrivare a fine mese; non è così per tutti, certo, ma vale sicuramente per larga parte della popolazione. E aumentano perciò anche le nubi, sulle quali qualcuno soffia pure, facendole sembrare più nere di quello che sono. In altre parole, si è rovesciato il clima sociale: da uno fin troppo ottimistico e superficiale, si rischia adesso di piombare in una fase in cui prevalgono le paure, le insicurezze, l’odio sociale. Cosa abbiamo sbagliato? Abbiamo sbagliato a pensare che esistiamo come singoli – individui, organizzazioni, imprese, Stati – a prescindere da ciò che ci sta intorno. Viviamo, come dico spesso, in una sorta di ritardo cognitivo: mentre da un secolo la scienza ci dice che non c’è forma di vita sulla Terra che non sia in relazione con ciò che le sta prima, intorno e dopo, noi continuiamo a ragionare in termini di sovranità individuali, di impresa e Stato, come se queste potessero esistere indipendentemente da tutto il resto. Ecco cosa c’è alla radice della grave crisi antropica in cui siamo piombati».

Illustrazione di Chiara Bosna.
Secondo i dati del nuovo rapporto OXFAM, per porre fine alla povertà nel mondo ci vorrebbe praticamente un secolo: ma la povertà, e anzi, meglio, i poveri, hanno davvero tutto questo tempo?
«Le disuguaglianze e le ingiustizie, che ci sono sempre state, si sono sicuramente radicalizzate negli ultimi anni. La loro crescita è aumentata con la globalizzazione, quantomeno in Occidente; nel resto del mondo, invece, erano già molto presenti. Un po’ dappertutto, poi, c’è chi ha sfruttato la crisi a proprio vantaggio e si è molto arricchito – pensiamo al Covid – e chi invece ha pagato conseguenze molto salate. Ecco che così il mondo si ritrova oggi con degli squilibri economico-sociali enormi. E no, i poveri non possono certo aspettare la promessa di una generica crescita che venga loro in soccorso, anche perché questa narrazione si è dimostrata assolutamente falsa. Si fa caldo e pertinente quindi il tema dell’odio sociale, della rivolta, della guerra. Per una certa fase storica abbiamo immaginato di poter mettere la crescita economica davanti a tutti, pensando che si sarebbe poi riversata su tutti a sua volta, i diversi strati sociali, le diverse nazioni. Quest’idea, definita tecnicamente come trickle-down effect, in verità, non si realizza: le disuguaglianze aumentano e la ricchezza si concentra. Dobbiamo quindi tornare a un’idea per cui la ricchezza va sì generata, ma anche distribuita secondo criteri di equità. Pensiamo al dislivello tra il salario di un operaio e quello di un manager: scandaloso e inammissibile in tal senso il caso, recente, del CEO di Stellantis. Bisogna cambiare i presupposti su cui, a partire dagli anni 80, abbiamo pensato l’economia».
A certe contraddizioni, seppur lampanti, ci abbiamo forse fatto l’abitudine? La cultura, la politica, la forza dei movimenti giovanili, cosa possono fare ancora per combattere questi meccanismi che producono salti, dislivelli, allontanamenti tra persone e persone e tra persone e società?
«La crisi che stiamo vivendo è una crisi complicata. La cosa che colpisce è la fatica che facciamo a immaginare scenari diversi. Ci troviamo in una situazione particolare. Da una parte ci sono le generazioni più avanti negli anni, specie in Italia, che hanno il controllo delle risorse economiche e che vivono in condizioni ancora relativamente agiate (almeno molti). Dall’altra abbiamo i giovani, più sintonici con le trasformazioni – penso al digitale e alla sostenibilità – che guardano al futuro, che sono però molto indeboliti (hanno poco potere) e spesso anche impoveriti. Questa è indubbiamente una contraddizione molto forte. Sappiamo che il ricambio generazionale è storicamente uno dei principali fattori che rendono possibile il cambiamento sociale. I ragazzi, però, oggi fanno fatica a comprendere la necessità di mettersi insieme, di creare azioni collettive, di identificare obiettivi comuni, proprio perché, pur essendo portatori di istanze di cambiamento, hanno respirato la logica individualistica degli ultimi decenni e ne sono forse rimasti intossicati. Stallo. Ma uno stallo a cui siamo chiamati a rispondere, inventando modi nuovi per aggregare le idee e le istanze di cambiamento e probabilmente anche immaginando un uso diverso della tecnologia digitale, che permetta il riconoscersi e l’agire nella realtà di chi avverte urgenza di trasformazione».
– Mauro Magatti
“Dopo una stagione di grande crescita, ci ritroviamo dunque nel bel mezzo di un’altrettanto grande trasformazione. Gramsci parlava di interregno, e definiva così quella fase in cui un assetto capitalistico viene meno senza che ne esista già uno nuovo pronto a rimpiazzarlo. Ecco: nell’interregno, si rischia la nascita di mostri, e, al fine di evitarlo, oltre a restare vigili, dobbiamo spingere lo sguardo avanti a immaginare nuovi equilibri.”