Intervista impossibile a Martin Luther King: “I have a dream”, sogno incompiuto, ma valido

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Martin Luther King, pastore battista, ha guidato il movimento per i diritti civili con fede e determinazione. Il suo sogno ha cambiato l’America, ma il cammino verso l’uguaglianza è ancora lungo e tortuoso.
Martin Luther King illustrato da Max Ramezzana.
Martin Luther King illustrato da Max Ramezzana.

Martin Luther King: la forza di un sogno che ha cambiato la storia

Impossibile incontrarsi di persona. Così decidiamo che la cosa migliore sia fare la nostra chiacchierata al telefono. La comunicazione, extradimensionale, è leggermente disturbata dalla lontananza.

Martin Luther King Jr (15 gennaio 1929, Atlanta – 4 aprile 1968, Memphis) è stato un attivista, politico e pastore
protestante statunitense, leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Il suo nome viene accostato per la sua attività di pacifista a quello di Gandhi.

Come sono stati i suoi primi anni di vita?

«Sono figlio di un pastore della Chiesa battista che rappresentava una figura di autorità e guida spirituale per la comunità dei neri. La carriera religiosa di mio padre mi ha ispirato a seguire le sue orme. A quei tempi non c’erano tante possibilità di immaginare che le leggi razziali nei confronti dei neri potessero finire. Negli anni 30, quando ero bambino, e nei 40, quando ero ragazzo non c’era ancora un vero e proprio movimento che concludesse qualcosa in termini di legge. Negli Stati del sud, durante la guerra civile nel 1860, gli Stati schiavisti persero la guerra civile e la schiavitù venne abolita, comunque restò in vigore una struttura discriminatoria. È vero che i neri erano liberi, ma tra le varie realtà, per esempio, non riuscivano a votare: a livello locale vennero stabilite delle regole per le quali si doveva superare un test al fine di ottenere l’iscrizione alle liste elettorali e se il test era tenuto da un bianco razzista, si veniva bocciati».

Che influenza ha avuto su di lei il viaggio in Terra Santa? 

«Sia sotto il profilo dei contenuti che dell’oratoria, tutte le azioni nascono dalla mia fede, quindi anche il pellegrinaggio in Terra Santa. Soprattutto l’attività, giorno per giorno, come predicatore nelle chiese frequentate dalla popolazione di neri, vivendo da nero in mezzo ai neri: questa accecante discriminazione mi ha fatto crescere sempre più. Sono diventato un leader del movimento grazie alla capacità di mobilitare le masse. La maggior parte della mia vita è volta verso il traguardo di una Terra Promessa, cioè la liberazione dei neri. Nel 1964 finalmente diventa legge la fine della discriminazione». 

matteo pervisale
Matteo Persivale, milanese, scrive sul Corriere della Sera dal 1990. Ha lavorato in
Cronaca, agli Esteri, agli Spettacoli. Al momento si occupa di moda, libri, e altro. A lui il compito, in qualità di grande esperto di vestire per l’occasione i panni di Martin Luther King.

Quali sono stati i cambiamenti più significativi provocati dal discorso «I have a dream»?

«Si tratta di un’occasione storica, il vento politico, non solo in America, sta cambiando. Gli anni 60 arrivano e si capisce che il mondo di prima finirà. C’è la presidenza Kennedy, c’è Giovanni XXIII: una fase dove si intravede che cambierà tutto. In quel periodo ho tenuto un discorso non politico nella forma, ma di ispirazione al mio sogno. Le immagini sono state prevalentemente religiose e tutti i bianchi che ascoltavano, al di là della profondità del discorso e anche se non particolarmente favorevoli al movimento, si sono sentiti uniti della stessa religione. La vera forza rivoluzionaria di quel discorso sta nel fatto che sono riuscito a parlare a tutta l’America, è stato come un inno alla giustizia. Nel momento di questo passo in avanti molto importante, sulla questione dei diritti dei neri purtroppo si sono aggiunte le questioni del 68 della rivolta studentesca contro la guerra in Vietnam». 

Il premio Nobel per la Pace ha influenzato la sua vita in qualche modo?

«È stato un momento storico perché, a livello mediatico, sono entrato nel salotto buono della geopolitica mondiale, io che ho cominciato da una chiesa molto piccola, come uomo di fede e non come uomo politico. Ho continuato come leader morale senza nessuna carica: il premio Nobel del 1964 è stato il mio primo riconoscimento». 

Come ha reagito la comunità afroamericana alle minacce e alle violenze che lei ha subito?

«Nel 1963 viene assassinato Medgard Evers, uno dei leader più importanti del movimento per i diritti civili. Si parla ormai di un periodo dove il livello dello scontro si sta alzando: l’anno successivo vengono uccisi due ragazzi bianchi e uno nero, attivisti per i diritti civili, viene bruciata una chiesa in Alabama e quattro bambine nere muoiono. Più diventa evidente che il movimento vincerà, più lo scontro purtroppo aumenta».

Cinzia Farina, laurea in Lingue e Letterature moderne, ha frequentato l’Istituto di medicina psicosomatica, specializzata in alimentazione, cronista del Bullone.

Quali sono state le conseguenze del suo assassinio, che ora lei vede da lassù?

«Quell’anno, il 1968, vengo assassinato a Memphis e dopo pochi mesi anche Robert Kennedy verrà ucciso: un’estate di violenza, quell’accelerazione enorme di uguaglianza che c’era stata, purtroppo rallenta di colpo. Successivamente, con l’elezione di Nixon la lotta dei neri avrà meno appoggi politici di quelli che aveva avuto prima». 

Perché il suo «modo» di mantenere la calma di fronte alla violenza oggi non viene insegnato nelle scuole e in famiglia? 

«In America hanno da poco festeggiato il Martin Luther King Day. La festa nazionale in mio onore non è stata festeggiata subito, sono passati molti anni prima che diventasse un patrimonio condiviso. È un cammino abbastanza lungo: purtroppo la storia si muove in termini di generazioni. Speriamo che i ragazzi di oggi sappiano creare un mondo futuro di pace».

– Martin Luther King

In quel periodo ho tenuto un discorso non politico nella forma, ma di ispirazione al mio sogno. Le immagini sono state prevalentemente religiose e tutti i bianchi che ascoltavano, al di là della profondità del discorso e anche se non particolarmente favorevoli al movimento, si sono sentiti uniti della stessa religione. La vera forza rivoluzionaria di quel discorso sta nel fatto che sono riuscito a parlare a tutta l’America, è stato come un inno alla giustizia.

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