Ricostruirsi oltre il dolore
La tapparella di camera mia viene tirata su, il sole entra a poco a poco e io con un occhio ancora chiuso, vedo la luce illuminare le piastrelle. Questo è il mio primo ricordo. Scelgo di iniziare da qui perché c’è un aspetto particolare che non viene evidenziato, ma che caratterizzerà tutte le mie esperienze: non ho mai avuto memoria emotiva. O meglio, sono convinta che una serie di eventi e la loro intensità, da quando ero molto piccola, abbiano favorito la rimozione dell’esperienza emotiva. Per questo, solo anni dopo, apprendo che in questa scena descritta da un punto di vista esterno, è presente in realtà una forte sensazione di angoscia che ci sarebbe sempre stata, ma che io non riesco a ricordare. Le mie difficoltà nascono con me quando, quel dieci gennaio, a ventinove settimane di gestazione, entro nel mondo insieme ai miei fratelli. Peso 550 grammi, sto letteralmente nella mano di mio padre e la mamma mi descriverà poi come un uccellino spelacchiato. Passo diversi mesi nell’incubatrice, contraggo un’infezione grave generalizzata: la sepsi dalla quale riesco a riprendermi e dopo essermi stabilizzata, torno a casa dal babbo, dalla mamma e dai miei fratelli. Quando provo a mettere insieme le cause della sofferenza che mi porto dietro, non parto mai da un punto diverso da questo.
QuellL’infanzia negata…
Sono convinta (e non solo io) che in quei primi mesi di vita la fatica, il dolore e la mancanza di figure significative siano state molto faticose da gestire e che quindi la prima grande rottura sia stata proprio la mia nascita. Poi cresco e che tipo di bambina sono, non lo ricorderò. Non ricordo come mi sento né quando gioco con mia sorella, né a scuola, né quando sto con le persone a cui voglio bene. Due cose caratterizzano la mia storia: la mancanza di memoria emotiva e la solitudine. Fin dai miei cinque anni, infatti, sperimento un rifiuto da parte degli altri nei miei confronti. Ricordo che è alla scuola dell’infanzia che iniziano i primi gesti e le prime parole cariche di odio. Quando entro in prima elementare per la prima volta sono una bambina molto emotiva e impaurita e scoppio subito a piangere. È in questi anni che inizio ad accumulare sempre più cattiverie da parte dei miei compagni e la solitudine inizia a farsi più delineata. Verso la fine della quarta elementare, un mio compagno di classe muore e alla notizia della sua scomparsa qualcosa si rompe definitivamente: fino ad allora non avevo mai sperimentato la scomparsa di qualcuno all’interno della mia vita. Il periodo delle medie risuona ancora in me come uno dei periodi in cui il dolore ha scavato nella mia pelle e nelle mie ossa fino a stabilircisi, a farci un nido senza che io me ne rendessi conto. Per tantissimo tempo non ho avuto il coraggio di dare un nome a quello che ho subito, di ammettere che, anche se nessuno se ne era accorto, era successo comunque.
Il Bullismo e quel dolore che ti scava dentro
Dalla prima alla terza media ho subito diversi atti di bullismo soprattutto psicologico, che sono stati una costante all’interno di questo percorso scolastico. Le conseguenze di questa forma di violenza (come di altre in questo periodo) sono arrivate lentamente e hanno avuto il loro culmine all’inizio delle scuole superiori, quando in un pomeriggio apparentemente normale sono entrata nel vortice dell’autolesionismo. È proprio in questo periodo che inizio a frequentare e cambiare vari psicoterapeuti e a seguire una prima terapia farmacologica. Il liceo delle scienze umane mi piace e sono anche molto brava, fino a quando la sofferenza che ho accumulato negli anni e gli effetti collaterali di alcuni farmaci arrivano a rallentarmi: non riesco più a studiare come una volta e per diversi giorni esprimo il desiderio di non andare più a scuola. Per fortuna questo non accade, perché mi diplomo avendo seguito un percorso scolastico lineare e non avendo mai abbandonato. Il 2017 si conclude con l’iscrizione alla facoltà di sociologia (a cui mi iscrivo solo per ripiego) e il mio primo ricovero in psichiatria. Così, continuando a stare male, nel 2018 concordo con i miei terapeuti un ricovero più lungo in una clinica della Monza-Brianza. Dico spesso che quel mese per me non è stato una rivoluzione, perché uscita dalla struttura non stavo comunque bene. Riconosco però che sia stato un grandissimo trampolino di lancio. Mi sono affacciata all’idea che nelle mie giornate ci potesse essere qualcosa di diverso dal dolore.
Uno degli anni più faticosi della mia vita e la giornata più luminosa
Successivamente, mi iscrivo alla facoltà che poi ho terminato e amato molto: scienze dell’educazione. Nel 2020 accadono due cose diverse l’una dall’altra ma molto significative e impattanti. Mio padre muore per complicanze da arresto cardiaco dopo un mese di ospedale e qualche mese dopo cambio psicoterapeuta. È in questo anno, che ritengo essere stato fra i più faticosi che ho vissuto, che conosco la mia attuale psicoterapeuta con la quale sono in cura tutt’oggi. Mi ha insegnato e mi insegna ancora a vedere e a leggere gli eventi (anche quelli che mi sono capitati) in un modo nuovo. Nei primi mesi mi ha aiutata a stabilire un attaccamento sicuro che mi ha permesso, nel 2023, di smettere di farmi del male. Sempre nel 2020 mia nonna si ammala di una forma di demenza che mette la mia famiglia ulteriormente a dura prova. In questi anni continuo a studiare e a fare alcune esperienze che oggi ritengo mi abbiano aiutato molto: il tirocinio, il volontariato e le lezioni di musica. A dicembre del 2023 mi laureo e ricordo quel giorno come uno dei più felici della mia vita, dove ho potuto vedere realmente la luce in fondo al tunnel. Oggi sono una persona completamente diversa da quell’Alice adolescente che passava le sue giornate a piangere in camera con la luce spenta. Oggi sento che in qualche modo ce la posso fare. Mi sento così lontana da quei giorni bui e pieni di angoscia. Piano piano riesco a incollare le parti di me che si erano divise e mente e corpo non sono più separati: sono insieme e io sono intera. È faticoso attraversare certi eventi, sentirsene schiacciati, desiderare di spegnere tutto e in qualche modo non esserne pienamente coscienti.
Un cammino oltre la tempesta
Non lo voglio negare e voglio ammettere che qualsiasi sofferenza stiate o abbiate affrontato, sfiderà la vostra capacità di restare in piedi e che va bene anche non vedere la luce, abbandonarsi a giornate di pianto, o credere di essere senza speranza. Va bene credere che quel dolore ci abbia forgiato e che non possiamo andare avanti senza di lui. Ma va bene anche provare a fidarsi di altri occhi, di altri tipi di esperienze, di qualcuno che ci guarda da fuori e ci vede per la nostra bellezza e la nostra complessità. Fa bene, capire che fuori dalla nostra diffidenza o paura del cambiamento possono nascere nuove modalità di comunicare, di entrare in relazione e alla fine vedersi così come siamo (stati) veramente: fragili, coraggiosi, a volte troppo impulsivi, a volte poco razionali perché desideravamo solo che il dolore smettesse di mangiarci vivi, ma umani. Ecco, vi auguro di potervi concentrare un giorno o l’altro sulla vostra autenticità e tenerezza e sulla persona che volete essere, nonostante quello che avete passato. C’è una frase che ho scoperto da poco di Timber Hawkeye che dice: «Non puoi calmare la tempesta, quindi smetti di provarci. Quello che puoi fare è calmarti. La tempesta passerà». Mi piace ripetermela nei momenti in cui riprendo a vacillare e ho imparato che è grazie a come ho affrontato certe difficoltà che ora ho degli strumenti per far fronte a quello che potrebbe accadere. Magari non ogni volta, ma so che sono lì, io li ho usati e posso rifarlo.
– Alice VIchi
“A dicembre del 2023 mi laureo e ricordo quel giorno come uno dei più felici della mia vita, dove ho potuto vedere realmente la luce in fondo al tunnel. Oggi sono una persona completamente diversa da quell’Alice adolescente che passava le sue giornate a piangere in camera con la luce spenta. Oggi sento che in qualche modo ce la posso fare. Mi sento così lontana da quei giorni bui e pieni di angoscia. Piano piano riesco a incollare le parti di me che si erano divise e mente e corpo non sono più separati: sono insieme e io sono intera.”