Scrivere con l’inchiostro della vita: il coraggio di lasciare un segno
Il legno della matita premeva contro la pelle delle dita, un corpo estraneo che avevo tenuto tra le mani così a lungo da confonderlo con una parte di me. Era calda, levigata, consumata nei punti in cui la stringevo di più, il calore familiare di qualcosa che avevo tenuto in mano così a lungo da confonderlo con una parte di me.
La sua mina tracciava segni leggeri, sempre pronti a sparire con un solo colpo di gomma. Provvisorie come ogni mia scelta. Scrivevo così da sempre. La matita era sicurezza. Un margine d’errore che mi illudeva di poter riscrivere tutto, cambiare idea, cancellare quello che non volevo vedere. La penna, invece, era una condanna. L’inchiostro si insinuava nella carta, affondava nella superficie, si attaccava con violenza, senza scampo. Se sbagliavi, l’errore restava. Ti marchiava. Ti imprigionava, ti costringeva a conviverci. Ti guardava con disprezzo, ricordandoti ogni volta che avevi ingenuamente osato credere di poterlo correggere. E io non volevo rischiare. Non volevo essere marchiata.
La sua voce spezzò il silenzio. «Scrivi sempre con la matita».
Era seduto davanti a me, il gomito poggiato sul banco, lo sguardo che mi trapassava, penetrandomi dentro. Lo sentivo addosso, come se scavasse nei miei pensieri senza nemmeno sforzarsi, insinuandosi dove non avrei mai voluto far entrare nessuno.
Giocherellava con una penna, una stilografica nera, pesante. La faceva ruotare tra le dita con la stessa lentezza ipnotica con cui si attende un verdetto già scritto.
«E allora?» risposi senza guardarlo, fingendo di concentrarmi sul foglio. «Perché non usi mai l’inchiostro?». Mi irrigidii. La matita, la mia compagna di vita si fece improvvisamente più pesante tra le dita.
«Perché con la matita posso cancellare».
«E tu vuoi cancellare tutto?», tenni lo sguardo basso, giocherellando nervosamente con la matita. «Se serve». «Puoi cancellare quanto vuoi», disse lui. «Ma puoi creare qualcosa che valga la pena di restare?». Non risposi. Mi limitai a scrivere una riga sul foglio. Poi un’altra. C’era qualcosa di sbagliato. Forse nella forma delle lettere, forse nel modo in cui si legavano tra loro. La gomma scivolò sulla carta. Un gesto istintivo, automatico, quasi meccanico. Un movimento che avevo ripetuto mille volte. Solo che questa volta, l’errore non sparì. Forse non avevo premuto abbastanza. Strofinai ancora. Niente. L’errore era ancora lì, identico, intatto, insensibile alla mia ostinazione. Un brivido mi attraversò la schiena.
Rafforzai la presa sulla gomma. Sfregai con più forza. La carta si sgualcì sotto la mia pressione, la gomma si consumò tra le dita.
No. No, non era possibile. La matita si cancella. Si cancella sempre. Provai ancora, stavolta con rabbia. Le parole non svanirono. Alzai lo sguardo, e lui era lì. Mi fissava, immobile. Non rideva, non sembrava sorpreso o soddisfatto. «Non si cancella». Le parole mi sfuggirono in un sussurro.
Lui fece scorrere la penna tra le dita, poi la spinse piano sul tavolo. La vidi rotolare verso di me, fermandosi a pochi centimetri dalla mia mano. Era lì, davanti a me. Aspettava. Le mie dita tremarono sulla matita, un ultimo istinto di protezione, di resistenza. Poi la lasciai andare. Sfiorai la penna, che scivolò tra le mie dita con una freddezza che mi fece venire i brividi. L’inchiostro si insinuò nella superficie con un fluire lento, deciso.
Non potevo cancellarlo né fingere che non fosse mai esistito. Le lettere erano incise nella carta, più vive che mai. Nessun tratto sbiadito, nessuna linea timida pronta a dissolversi al primo colpo di gomma.
Certo si può vivere a matita, tracciando confini leggeri, sempre pronti a svanire, sempre pronti a essere riscritti, illudendosi che nulla sia mai realmente definitivo.
Oppure si può incidere un segno. Si può rischiare di sbagliare, di lasciare segni sbavati, di rovinare tutto.
Ma solo così si lascia un segno.
Lasciai andare un respiro che non mi ero accorta di star trattenendo.
Poi, senza più esitazioni, continuai a scrivere. E per la prima volta, non avrei cambiato una singola parola.
– Rachele Rivolta
«E allora?» risposi senza guardarlo, fingendo di concentrarmi sul foglio. «Perché non usi mai l’inchiostro?». Mi irrigidii. La matita, la mia compagna di vita si fece improvvisamente più pesante tra le dita. «Perché con la matita posso cancellare».