Il giorno che cambiò tutto e la lezione di un vecchio viaggiatore
A dodici anni vestivo sempre uguale, nel mio armadio c’erano solo camicie azzurrine a quadretti e pantaloni a sigaretta beige, maglioni blu scuro per l’inverno e calzoncini grigi fino al ginocchio per l’estate. Mia madre non ci provava neanche più a farmi mettere capi più colorati: tutto ciò che non era mia consuetudine indossare finiva in una brutta scatola nera come la pece, accanto alla porta. Eppure da lì non si è mai spostata, anche se ogni volta che mi dimenticavo della sua presenza, sbattevo il mignolo del piede sinistro contro il suo spigolo un po’ incurvato a furia di prendere botte.
Ogni mattina prendevo la corriera delle 7.27, sedevo sempre nel posto accanto al conducente per poter osservare i cipressi che costeggiavano lo sterrato del mio paesino, Mary Collins che fumava sul bancone di una villetta a schiera in Garden Street, il gatto che dormiva sul davanzale dei vicini di mia nonna Millie, il giovane Peter che pedalava veloce lanciando quotidiani ai piedi di ogni porta. Dal mio piccolo sedile riuscivo finanche a scorgere il grande orologio della biblioteca W. Shakespeare che mi annunciava, alle 7.49, che quella successiva sarebbe stata la mia fermata; arrivavo al cancello della scuola esattamente trenta minuti prima dell’inizio delle lezioni per evitare ritardi e mi sedevo su una panchina aspettando che il custode aprisse il portone.
Fu il 16 aprile del 1989 che qualcosa cambiò radicalmente la monotonia delle mie giornate: avevo da poco preso posto sulla corriera, quando questa fece una frenata brusca lanciandomi con le spalle in avanti. La porta esattamente davanti a me si aprì e scorsi un vecchietto che dall’esterno faticava a mettere il piede sulla pedana, mi stupii pure io di ciò che feci: mi alzai e porsi il braccio all’uomo. Lui mi sorrise, aveva dei denti bianchi e grandi, il suo sorriso era genuino e sincero. Osservai la corriera in cerca di un posto libero dove farlo sedere, ma il mio sguardo si fermò solo sul sedile dove solevo stare io, pensai che forse per quel giorno sarei potuto stato in piedi.
«Sei proprio un giovanotto gentile».
Mi girai verso l’anziano.
«Non tutti mi avrebbero ceduto il proprio posto», continuò lui. Annuii.
«Non sei proprio un gran chiacchierone eh, ma non ti preoccupare, è molto più interessante conversare con un taciturno che con uno che non fa altro che parlare. Gli atteggiamenti e i gesti dicono più di mille parole: il nostro corpo comunica più di quello che noi vogliamo far vedere, sai». Poi si girò a guardare le persone che condividevano la corriera con noi. «Ad esempio, vedi quella signora laggiù, quella che legge il libro? Guarda come lo tiene stretto, le sta piacendo molto, forse si sta anche emozionando; oppure quel giovane con il cappello rosso, vedi che sbatte il piede velocemente? Probabilmente va di fretta e ha paura di perdere la sua fermata, quindi sta in piedi accanto alla porta». Osservai il ragazzo e mi accorsi che il suo volto mi trasmetteva ansia, sbatteva gli occhi di continuo e si mangiava le unghie della mano sinistra.
Di colpo mi resi conto di quanti dettagli avevo sempre tralasciato: i volti per me non erano più nomi e cognomi, ma diventavano storie, emozioni, passioni. Non mi ero mai sentito così vicino al genere umano come lo ero adesso, i loro dolori diventavano i miei e la loro felicità si proiettava nel mio sorriso, tutte quelle emozioni che, fino a quel momento, avevo tenuto nascoste dietro alla mia monotonia per paura di esprimermi, le vedevo trasmesse sul viso di qualcun altro che aveva avuto più coraggio di me a farsi vedere.
Fu quel giorno che mi salvò, poche parole erano state in grado di cambiarmi definitivamente nel giro di qualche minuto. Quel vecchietto mi aveva aperto la mente facendomi osservare una realtà celata sotto gli occhi di un giovane ragazzo che preferiva nascondersi al mondo, ma che presto capì di non essere mai stato del tutto invisibile agli altri.
– Greta Arrigo
“Di colpo mi resi conto di quanti dettagli avevo sempre tralasciato: i volti per me non erano più nomi e cognomi, ma diventavano storie, emozioni, passioni. Non mi ero mai sentito così vicino al genere umano come lo ero adesso, i loro dolori diventavano i miei e la loro felicità si proiettava nel mio sorriso, tutte quelle emozioni che, fino a quel momento, avevo tenuto nascoste dietro alla mia monotonia per paura di esprimermi, le vedevo trasmesse sul viso di qualcun altro che aveva avuto più coraggio di me a farsi vedere”.