La Generazione Z e il coraggio di sbagliare
L’undici settembre di noi non c’era quasi nessuno. Non abbiamo fatto la guerra, la fame o il ’68. Degli anni in cui abbiamo iniziato a prendere coscienza del mondo, quasi due li abbiamo passati in casa. Nel frattempo siamo diventati consapevoli che c’è una crisi climatica, e ha conseguenze reali. Siamo stati, prima e dopo la pandemia, i giovani che hanno occupato le strade delle città italiane ed europee perché chi ha il potere provasse a evitare i disastri ambientali. Per com’è andata poi, siamo diventati la generazione che conosce meglio il termine «ecoansia»: il terrore dei disastri ambientali dovuti alla crisi climatica e l’angoscia di sapere che è troppo tardi per prevenirli.
Di ecoansia e di ogni altra ansia siamo esperti: siamo la generazione che più parla di salute mentale e che più ne soffre. In una Scuola meno severa di quella di anni fa e, in molti casi, in condizioni materiali migliori e meno precarie di quelle del secolo scorso, la nostra ansia come generazione sembra inspiegabile persino a noi. Per me, a 18 anni, lo era. Nonostante la mole di certificati, diplomi, patenti e attestati da ottenere durante il quinto anno di liceo, il mio dilemma era un altro: scegliere l’università. Davanti a decine di siti di atenei, vicini e lontani, e in mezzo a centinaia di corsi di studio, scegliere il passo successivo mi sembrava impossibile. Le persone a cui chiedevo consiglio mi rispondevano che la triennale va scelta in base a quello che vuoi fare dopo, per il resto della tua vita.
A metà del quinto liceo, all’improvviso mi sono trovata a pensare che mi restavano giusto tre o quattro settimane per capire e pianificare il resto della mia esistenza. Bisognava pensare per tempo, studiare in tempo per i test di un’università e mandare richiesta in tempo nell’altra, così se non ti prendevano nella prima, almeno andavi nella seconda. Sentivo di avere una sola possibilità di azzeccare la strada che avrebbe potuto assicurare o distruggere il mio futuro. A 18 anni, per me, ogni scelta era definitiva, e ogni errore irrimediabile. Non ero sola: durante quell’anno, il mio e altri licei di Milano erano stati occupati da gruppi di studenti che protestavano contro questa mentalità, stufi dell’ansia che generava.
Oltre alla fatica psicologica però, c’è un dato fondamentale sui giovani italiani: sono sempre meno, e sono una minoranza. In una democrazia non è mai una buona notizia, soprattutto in una democrazia che spende in pensioni oltre quattro volte quello che spende in istruzione – quote pari al 3,9 e al 16,3 percento del PIL (dati OCSE). In un Paese in cui la maggioranza degli aventi diritto al voto è pensionata o prossima alla pensione, i giovani non sono una priorità. La distribuzione demografica del nostro Paese spiega anche le scelte operate negli anni da ogni parte politica di rendere il lavoro instabile e flessibile quasi solo per i giovani. La maggior parte, infatti, resta nel lavoro precario fino oltre i trent’anni. La prospettiva è che la spesa pubblica si sbilanci ulteriormente a favore delle vecchie generazioni, con sempre più persone anziane e sempre meno nuovi nati: si spenderanno più soldi in pensioni e sanità e meno in politiche per l’infanzia. Tra lavori precari e un welfare che disincentiva la natalità, la prospettiva dei giovani in Italia è un disastro annunciato (o un invito all’emigrazione). Non sarà un problema solo della generazione Z, lo è già per i Millennial, lo sarà anche per la generazione Alpha.
Pochi mesi dopo l’ansia della quinta superiore, mi sono trasferita e ho iniziato l’università. La facoltà scelta non mi è piaciuta, e neanche la città in cui ero. Era una delle ipotesi che potesse non piacermi. Quello che non avevo ipotizzato era che sarei sopravvissuta, e che sarei stata felice. Davanti a così tante informazioni, possibilità e rischi, non avevo capito che potevo prendermi lo spazio. Di sbagliare, di cambiare idea. Alla generazione Z penso sia questo che serve: prendersi un po’ di spazio. Per esistere e per sbagliare. Spazio dai problemi giganteschi che non si risolvono da soli, come la crisi climatica, la guerra e lo squilibrio demografico. Sono problemi reali, importanti, e che prima o poi toccherà a noi affrontare. Prendersi spazio, allora, vuol dire prendersi lo spazio di immaginare un futuro diverso per provare a cambiare il presente.
– Francesca Covini
“Davanti a così tante informazioni, possibilità e rischi, non avevo capito che potevo prendermi lo spazio. Di sbagliare, di cambiare idea. Alla generazione Z penso sia questo che serve: prendersi un po’ di spazio. Per esistere e per sbagliare. Spazio dai problemi giganteschi che non si risolvono da soli, come la crisi climatica, la guerra e lo squilibrio demografico.“