“Chiamami adulto”: ascoltare gli adolescenti quando fa più male
«Andrà tutto bene», questo tutto bene che bene non va, non è la risposta. E soprattutto, non è quella da dare al disagio di un giovane. Perché ascoltare è restare, anche quando si è scomodi. Ne abbiamo parlato con lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini, Presidente della Fondazione Minotauro, docente universitario e autore, tra gli altri, di Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti.
Adolescente e adulto sono participi dello stesso verbo: presente il primo, «che cresce»; passato l’altro, «cresciuto». Ma sono cresciuti davvero quelli che oggi chiamiamo adulti?
«Sì, e non è credibile, per me, questa storia dell’eterno adolescente o di un’infanzia particolarmente prolungata. Le trasformazioni affettive sono inevitabili: l’adulto è adulto, l’adolescente è adolescente; si può discutere, piuttosto, di come sono cresciuti e delle loro fragilità».
Sempre etimologicamente parlando, l’adolescente è colui che cresce perché nutrito (ad + alere). Di cosa si nutrono i ragazzi di oggi?
«Il nutrimento necessario alla crescita è la relazione. Mi viene chiesto spesso che cosa sia la felicità: ecco, una relazione autentica con l’altro è una delle dimensioni che più si avvicina alla felicità, anche perché è di consolazione rispetto ai vissuti depressivi di cui ciascuno fa esperienza nel corso della vita. Da sempre perciò, le relazioni in adolescenza, anche con gli amici, sono fondamentali perché rappresentano qualcosa di sacro ed evolutivo. Dobbiamo offrirne ai ragazzi di autentiche, che partano dalla domanda “chi sei tu?”, presupposto imprescindibile al fine di provare a identificarsi con l’altro».
Perché Chiamami adulto, come titolo della sua più recente pubblicazione? Perché non Chiamami adolescente?
«Per due motivi. Innanzitutto, perché abbiamo cambiato moltissimo il modo di crescere i bambini, a cui chiediamo da subito di adultizzarsi, seguendo un processo di anticipazione di cui sembriamo totalmente dimenticarci con l’arrivo dell’adolescenza: basti pensare a espressioni sconvenienti quali baby gang e simili. Insomma, infantilizziamo gli adolescenti dopo averli adultizzati in infanzia. Il secondo motivo, invece, sta nel fatto che oggi gli adolescenti ricercano come mai prima relazioni autentiche con le figure adulte in cui riescono a identificarsi. Se l’adulto in questione, però, si ostina a ripetere che le problematiche degli adolescenti, oggi, siano internet, il troppo amore, la pandemia, non è un adulto utilizzabile perché parla solo di sé, anziché parlare ai ragazzi e identificarsi con loro. Ed è soprattutto un adulto incoerente che firma petizioni per vietare i social a bambini e adolescenti, mentre posta online il video del primo giorno di asilo di suo figlio».
Sappiamo davvero chi sono i ragazzi e le ragazze di oggi? Conosciamo i nomi con cui vorrebbero sentirsi chiamare?
«No, e non è detto che ce li vogliano dire tutti. Quello che dobbiamo chiederci, piuttosto, è se creiamo davvero le condizioni per cui, in un momento di difficoltà, si possano sentire liberi di farlo. L’adolescenza è l’età della separazione: non si racconta tutto, è normale. Chiamiamo educazione il mettere a tacere le emozioni e gli aspetti identitari dell’altro: è questo il vero grande problema. Ascoltiamo i nostri figli molto più che in passato, ma nel momento in cui manifestano rabbie, paure, tristezze, richieste, quello che facciamo è metterle a tacere in virtù di una sorta di didattica della relazione. La violenza giovanile verso sé e verso gli altri nasce proprio da questa impossibilità di esprimere “chi sono io” e le emozioni che ne conseguono, soprattutto quelle più negative e disturbanti».
Che fine ha fatto, oggi, il bambino? Può la sua prematura scomparsa, essere una delle concause dell’apparente incomunicabilità tra crescenti e cresciuti?
«Il bambino non è morto, sono i suoi bisogni, e di conseguenza la sua identità, a essere negati; primo fra tutti la sua innata dipendenza affettiva, additata oggi come il male di ogni rapporto. Il bambino è al centro soltanto in apparenza: soltanto, cioè, finché non esprime sentimenti e bisogni che disturbano l’adulto e violano i suoi serratissimi impegni».
L’avvento del digitale ha in qualche modo alterato le tappe canoniche dell’evoluzione dell’individuo?
«No, è cambiato però il modo di affrontarle. Basti pensare alla procreazione assistita: per la prima volta nella storia dell’umanità la sopravvivenza della specie umana non è legata all’atto sessuale. Cosa c’è di più rivoluzionario di questo? La costruzione identitaria di tali tappe deve quindi tener conto di queste trasformazioni. I compiti evolutivi dell’adolescenza restano gli stessi, a cambiare sono i moventi».

Che cosa occorre riportare ai giovani per riuscire a relazionarsi in maniera funzionale con loro?
«In una società individualista come la nostra, occorre riportare l’altro al centro della relazione. Abbiamo il brutto vizio di chiedere agli altri di essere sé stessi a modo nostro; ma come può un ragazzo crescere con adulti che anziché spiegargli cosa sente, si ostinano a dirgli cosa deve o non deve sentire?».
Come convivono la sensazione adolescenziale di non essere capiti e l’apparente totale libertà di espressione concessa in internet?
«In internet, in realtà, non ci si va a esprimere liberamente. In internet i ragazzi vanno perché si sentono troppo soli in mezzo agli adulti. Ed è una sensazione terribile, quella di sentirsi soli in mezzo agli altri, a cui è quindi preferibile ritrovarsi soli in rete».
Chi capisce, invece, gli adulti?
«La gran parte delle cose che dico le dico perché in questi anni mi sono identificato non solo con la scuola italiana, ma anche e soprattutto con il dolore, la disperazione, la sofferenza, la difficoltà del ruolo di padri e madri. Il mio Chiamami adulto è un appello, non un’accusa».
Si può essere aperti ad ascoltare ciò che si è già convinti di non poter capire?
«Non si può entrare nella mente dell’altro e capirlo fino in fondo, mai. Ma gli si può sì offrire una relazione autentica, che non significa avere le risposte, bensì provare a fare le domande giuste. Quindi sì, si può, a patto di non trattare un adolescente che non parla come un traditore, e riconoscendone piuttosto le difficoltà a tirare fuori le proprie verità affettive».
Può il disagio esistenziale di quest’epoca farsi linguaggio comune tra adulti e adolescenti?
«Sì. Può risultare impopolare, ma la verità è che noi, oggi, dobbiamo stare nel dolore. In una società algofobica che la sofferenza sa solo spettacolarizzarla, dobbiamo imparare ad accettare che senza le emozioni negative non possiamo costruire la nostra identità. È Tristezza a placare Ansia in Inside Out 2. Noi non siamo in grado di stare nelle emozioni più disturbanti; e sono proprio queste ultime che invece i ragazzi non vedono l’ora di poter condividere con noi».
– Matteo Lancini
“Oggi gli adolescenti ricercano come mai prima relazioni autentiche con le figure adulte in cui riescono a identificarsi. Se l’adulto in questione, però, si ostina a ripetere che le problematiche degli adolescenti, oggi, siano internet, il troppo amore, la pandemia, non è un adulto utilizzabile perché parla solo di sé, anziché parlare ai ragazzi e identificarsi con loro. Ed è soprattutto un adulto incoerente che firma petizioni per vietare i social a bambini e adolescenti, mentre posta online il video del primo giorno di asilo di suo figlio.”