Animenta, quando la bolla si rompe: “Ti vedo”, e non sei più solo
Ogni anno, il 15 marzo è il giorno chiave per le attività di Animenta, e tutte quelle realtà che quotidianamente si occupano di Disturbi Alimentari. Negli ultimi anni, facendo parte della «squadra – famiglia» che Animenta è diventata, ho preso parte ai convegni in Camera dei Deputati, agli eventi e ai laboratori, cercando di fornire supporto fuori e dentro l’Associazione.
Quest’anno è stato diverso, tuttavia. Quest’anno, noi volontari, abbiamo attivamente preso parte al progetto come staff, in una cena che si è svolta la sera prima dell’evento, con persone che provenivano da ogni parte d’Italia, e poi con l’evento il giorno dopo, domenica 16 marzo, al Teatro Quirino.
Dei relatori e degli argomenti ne abbiamo già parlato nel numero scorso, di conseguenza, ho deciso di dare più spazio alla carica emotiva che quei giorni hanno comportato, e che si sono conclusi con una commozione generale difficile da spiegare e far comprendere agli altri.
Quando hai un Disturbo Alimentare, tendi a sentirti solo e isolato. Quando io ho avuto un Disturbo Alimentare, mi sono sentita sempre come in una bolla di vetro, anzi, di plexiglass, più difficile da buttar giù. Sola.
Era impossibile spiegare agli altri cosa mi stesse passando per la testa, come lo stesse facendo, e perché. Mi sembrava di parlare una lingua sconosciuta, di non riuscire a farmi capire, subendomi tutto lo stigma e la solitudine di frasi come: «Ormai sei grande, direi che puoi smetterla!», dette da persone che, per una ragione o per l’altra, erano per me famiglia. E ogni volta che una di queste frasi faceva capolino tra i loro denti, sospiravo internamente e pensavo: «Non capiscono. Non capiranno. Non so spiegarmi».

La solitudine del mio Disturbo Alimentare si prendeva anche quel posto che io cercavo di non occupare, circondandomi da una nube di distacco che impediva anche agli altri di entrare. E più venivo additata per la mia malattia, più la nube diventava nera e fitta, allontanandomi sempre di più dagli altri.
L’ho vissuto a scuola, con i compagni; e poi a casa, con le coinquiline, quando una di loro ha chiuso a chiave me e il mio malessere perché «di troppo», persino in quella che era casa mia. Ero di troppo. Il mio disturbo era di troppo. Lo era sempre stato.
Il quindici marzo, quest’anno, ho sentito davvero quella bolla rompersi. Abbiamo riso, abbiamo scherzato, abbiamo vissuto momenti di convivialità che forse, da soli, non ci saremmo mai permessi di sperimentare. Abbiamo condiviso leccornie e parole, pensieri comuni e spesso non detti, ma che, in quel momento, non pesavano come al solito.
La vera leggerezza, nonostante il «peso» del tema affrontato. Siamo andati lì per parlare della malattia, ma siamo andati oltre la malattia.
Abbiamo cantato con Dile e ci siamo occupati un po’ di tutto: da chi aiutava le persone a confluire a teatro, ai relatori che portavano il «sentire clinico», e a quelli che raccontavano le loro storie. Siamo stati dentro e fuori le quinte, abbiamo applaudito e riso da dietro e davanti il palco: abbiamo fatto gruppo. Un gruppo dove il giudizio non c’era, dove le nostre storie (lo sapevamo) si intrecciavano in tempi e modi comuni, dove al posto di dire «smettila», dicevano «io ti vedo».
Una volta una persona mi disse che dire «ti vedo» a qualcuno è un profondo gesto d’amore, una grande mano tesa.
Quando abbiamo finito l’evento, e siamo saliti sul palco, ho sentito le lacrime riempirmi gli occhi. E per la prima volta, non per il «ricordo» di quanto dolore ho provato in passato, ma perché ho visto, in me e negli altri, in Aurora e in Laura, la forza incredibile di un progetto che ci ha uniti e che ci ha resi tutti mano per mano, una grande catena di montaggio che aveva fatto commuovere anche chi avevamo davanti. Mi sono commossa perché in quella bolla non ero più sola. Perché non c’era giudizio, solo tanta forza e tanta voglia di aiutare chi, in quella cupola di plexiglass, è ancora bloccato, e forse, grazie alle nostre parole, inizia finalmente a vedere qualche crepa.
In fondo si dice così, no? È dalle crepe che entra la luce. E sono abbastanza convinta che in quel teatro di luce ne sia entrata tanta. Magari non direttamente lilla (il viola era vietato!), ma una luce insopprimibile e impossibile da non vedere. La luce perfetta per dissipare le nubi oscure. Grazie a tutta la squadra di Animenta per quello che è stato fatto, per quel «ti vedo» che, forse, è davvero molto di più che un semplice gesto d’affetto.
È la frase di chi, finalmente, è stato visto e riconosciuto. Come persona, con dignità, come un essere umano e dopo, solo dopo, come «malato».
– Cristina Procida
“Il quindici marzo, quest’anno, ho sentito davvero quella bolla rompersi. Abbiamo riso, abbiamo scherzato, abbiamo vissuto momenti di convivialità che forse, da soli, non ci saremmo mai permessi di sperimentare. Abbiamo condiviso leccornie e parole, pensieri comuni e spesso non detti, ma che, in quel momento, non pesavano come al solito. La vera leggerezza, nonostante il «peso» del tema affrontato. Siamo andati lì per parlare della malattia, ma siamo andati oltre la malattia.“