Caramelle salate: la memoria come ultimo atto d’amore
Siamo in quanto siamo ricordati. Esistiamo fintantoché siamo ricordati. Ma allora siamo esistiti davvero, se veniamo dimenticati? Leggevo la lettera d’amore di Luciano ad Anna, Annie per lui, quando la mia compagna, che pochi istanti prima mi aveva fatto dono di quel tenero ed elegante ricordo dei suoi nonni materni, ha condiviso con me anche questo timore. «Mi fa paura lo scorrere del tempo perché tutto verrà dimenticato. E se nessuno ricorda, è come se non fosse mai esistito. Mi fa paura». Io, che non sono troppo brava con le rassicurazioni – non perché non abbia un innato istinto a confortare, ma piuttosto perché non sono tanto disposta a dire bugie né bianche né di nessun altro colore pur di farlo – le ho risposto con una promessa, nonché la mia fragile e umana verità: che finché fosse stato in mio potere, di quelle parole non mi sarei mai scordata. Non si tratta qui di avere la pretesa di credere che sia sufficiente: non siamo eterne né io né la mia memoria, e perciò, stando al principio di partenza, non posso darmi né darle la responsabilità di sospendere la fine che su tutto e tutti, presto o tardi, si abbatte.
E anch’io, d’altronde, condivido lo stesso terrore, che assume per me la (non) forma delle ultime particelle evanescenti di Bing Bong, l’amico immaginario rosa della protagonista di Inside Out: sacrificandosi per tirar fuori Gioia dal pozzo dell’oblio, e fare così il bene di Riley, il mostriciattolo accetta la propria definitiva distruzione con il sorriso triste di ogni amore quando si fa nostalgia.

Immagine realizzata con sistema di intelligenza artificiale Bing Image Creator.
Provo tuttavia a fare pure io, come lui, delle mie – nostre – lacrime, caramelle, aggrappandomi a un altro pensiero.
Parlavo, sempre con la mia compagna, in un’altra occasione, di quell’annosa questione dell’albero nel mezzo del bosco, che cade e fa o non fa rumore. C’è silenzio, senza orecchie presenti ad ascoltarlo, solo in seno a una visione dispoticamente antropocentrica e soggettivistica del reale, che rende ogni cosa tale soltanto a condizione che venga umanamente percepita. Ora, non è forse altrettanto presuntuoso e parziale fare della memoria individuale, di per sé fallace e tutt’altro che assoluta, principio legittimante di identità, esistenza, ruoli, valore? Non che non sia innegabile, attenzione, che l’atto di riconoscersi nel proprio nome, pronunciato da chi lo ricorda, certifichi la nostra realtà più di quanto possa farlo un’immagine riflessa allo specchio in una stanza in cui, al di fuori di noi stessi e dello specchio appunto, non c’è nessuno. Altrimenti non sarebbe nemmeno così terribile – e lo è – trovare vuoti, da un giorno o da un mese all’altro, occhi nei quali, fino a un giorno o un mese prima, avevamo letto di essere. Ma responsabilizzare a tal punto un ricordo rischia di svalutarne la portata a fronte della sua finitudine. Non c’è termine di paragone che regga, a confronto con la morte, se facciamo della morte unica unità di misura; e così del tempo, che se anche non finisce (universalmente) passa, ed è pertanto lo stesso.
Anna ha potuto continuare a leggersi nella salda grafia del marito, quando la morte di lui non le ha più permesso di sentirsi chiamare per nome dalla sua voce. Ma chissà se lo ricordava ancora, di essere stata quell’Annie, quando l’Alzheimer ha iniziato a togliere dalla sua bocca i nomi di figli e nipoti. Dov’era, allora, Luciano? Dov’era, allora, quell’amore già mutato in nostalgia? Esiste intatto su uno e più fogli di carta, certo, che tuttavia finiranno anch’essi per parcellizzarsi e sparire. O sbiadire. E così chi per dono o sorte li ha letti. Ma l’albero è caduto sotto gli occhi di un cielo che non muore. Almeno non che noi sappiamo, o immaginiamo, e tanto basta. Perché in fondo, come ciò che finisce dopo di noi, anche quello che continua a vivere smette di riguardarci nel momento in cui ne perdiamo coscienza. Fintantoché siamo e possiamo, però, ricordiamo. E sentiamo, che è la più bella e lacerante garanzia di esistenza di ciò che, per ciascuno, più conta.
– Federica Margherita Corpina
“Ma l’albero è caduto sotto gli occhi di un cielo che non muore. Almeno non che noi sappiamo, o immaginiamo, e tanto basta. Perché in fondo, come ciò che finisce dopo di noi, anche quello che continua a vivere smette di riguardarci nel momento in cui ne perdiamo coscienza. Fintantoché siamo e possiamo, però, ricordiamo. E sentiamo, che è la più bella e lacerante garanzia di esistenza di ciò che, per ciascuno, più conta.”