Disuguaglianza – Pensiamo ai diritti: siamo più liberi, ma non del tutto

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La B.Liver Federica racconta la storia del Pride e denuncia le discriminazioni LGBTQIA+ in Italia, tra terapie di conversione e negazione dei diritti; e Invita a usare i privilegi per una vera equità sociale.
Immagine realizzata con sistema di intelligenza artificiale Bing Image Creator.

Diritti negati e Pride: una battaglia ancora aperta

L’attacco di questo scritto parte da un dato eloquente, anche se apparentemente estraneo rispetto al contenuto specifico che andremo a trattare. L’affluenza media nazionale ai referendum dell’8 e 9 giugno è stata del 30,6%, ben lontana dal raggiungimento del quorum (50+1%). Tanto ci sarebbe da dire su questi numeri, ma ciò che più importa a noi in questa sede è un altro aspetto: i pochi che si sono recati alle urne lo hanno fatto soprattutto per esprimere la propria contrarietà alla concessione della cittadinanza italiana agli immigrati, con i “no” che hanno superato il 40% sul già limitato 30% di affluenza.

Tradotto in termini semplici: chi gode della possibilità di esprimersi sull’estensione di un certo diritto a chi non ne gode, usa il proprio diritto per ostacolare la stessa estensione. Se c’è ancora chi in Italia si domanda a cosa serva il Pride, per dirne una, è evidente che questa tendenza riguarda più ambiti contemporaneamente.

Ma andiamo con ordine, seguendo un percorso cronologico.

In principio era lo Stonewall Inn, un bar gay nel quartiere del Village, a New York. Nella notte tra il 27 e il 28 giugno 1969, una retata della polizia colpì un gruppo di persone omosessuali, travestite e trans che erano solite incontrarsi lì. Alla violenza dei poliziotti si opposero per prime tre donne: Sylvia Lee Rivera e Marsha P. Johnson, transgender e drag queen, e Stormé DeLarverie, lesbica butch.

Per tre giorni e tre notti l’intero quartiere fu sconvolto: persone da tutta Manhattan scesero nelle strade per unirsi a quell’atto di ribellione, oggi noto come i «moti di Stonewall». L’anno successivo, in memoria di quei fatti, persone omosessuali, trans e travestite riempirono le strade di Washington per celebrare e sfilare in una vera e propria marcia di liberazione, che solo negli anni ’90 prese il nome di Pride, dall’inglese to be proud, cioè «orgogliosə» di ciò che si è.

Si tratta, quindi, di una celebrazione storica, a cui presero parte – dettaglio importante – anche soggetti non direttamente coinvolti nella violenza, ma che non tolleravano fosse subita da altri, pur se diversi da loro.

Sono passati cinquantasei anni da allora: siamo davvero così liberi da non dover più ricordare, dedicandogli addirittura un intero mese, il fatto storico che ha dato inizio a questo processo di liberazione?

Siamo più liberi, certamente, ma non del tutto. L’Italia è il Paese dove se sei omosessuale puoi ancora essere sottoposto a terapie di conversione per «guarire», è il Paese delle «processioni» riparatorie contro quelle che qualcuno chiama ancora «fastose baracconate», è il Paese il cui Governo, nel 2024, ha annullato gli atti di nascita dei figli delle coppie omogenitoriali e si è rifiutato di firmare la dichiarazione UE per i diritti LGBTQIA+. Senza contare i casi di discriminazioni e aggressioni omobitransfobiche, i commenti «sei solo confuso/a» e «non è normale».

Ma anche se tutto questo fosse superato, perché non dovrebbe comunque restare necessario scendere in piazza per dei diritti che magari sono stati riconosciuti a livello personale, ma che nel Paese vicino sono ancora negati e persino criminalizzati?

Non scegliamo i nostri privilegi, e averli non può essere una colpa; possiamo però decidere cosa farne, riconoscendo che sono, quasi paradossalmente, uno strumento potente di equità.

E per equità non intendo semplicemente includere e tagliare una torta pensata per dieci persone in venti fette, come suggerisce l’attivista e avvocata Cathy La Torre, bensì prendere una torta più grande che sazi adeguatamente tutti, senza togliere nulla a chi già ne aveva una fetta garantita.

– Federica Margherita Corpina

Per tre giorni e tre notti l’intero quartiere fu sconvolto: persone da tutta Manhattan scesero nelle strade per unirsi a quell’atto di ribellione, oggi noto come i «moti di Stonewall». L’anno successivo, in memoria di quei fatti, persone omosessuali, trans e travestite riempirono le strade di Washington per celebrare e sfilare in una vera e propria marcia di liberazione, che solo negli anni ’90 prese il nome di Pride, dall’inglese to be proud, cioè «orgogliosə» di ciò che si è.”

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