La mia storia di malattia è una storia di momenti, di spaventi e di parole, oggi scelgo di cogliere un’opportunità.
La mia storia di malattia è una storia di momenti, di spaventi e di parole. Uno di quei momenti è oggi, 24 aprile 2022, ed è un momento in cui scelgo di cogliere un’opportunità: scelgo di aprire. Scrive Chandra Candiani che «c’è un no nella paura, non vogliamo viverla», e poi scrive anche «quando la paura bussa, apri».
Facendo colazione questa mattina, ho letto un racconto di Alessandro Baricco, che scrive in un modo che mi mette coraggio, e che ha attraversato proprio quest’anno la malattia. Nel racconto un padre e un figlio hanno l’abitudine complice di correre arrampicandosi sull’unica cunetta di un’estesa pianura, e gridare il proprio nome. Il padre si chiama Libero. Ecco, questo per me sarà un momento cunetta in cui griderò il mio nome, e sarò libera.
Dicevamo delle parole, hai mai pronunciato ad alta voce la parola cancro, chemioterapia, sclerosi multipla? Perché si tratta di questo: queste parole hanno il potere, segnato da una cultura complicata e invalidante, di fermarsi nella mia mente alle prime sillabe, schiacciate dalla censura dei visceri che si ribellano alla pronuncia intera – anche solo pensata – a colpi di diaframma. Ho scoperto questo, di me, di fronte ad ogni diagnosi.
Facciamo un passo indietro, Agosto 2016, Agosto 2020. Due estati agli sgoccioli, due distinti malesseri, due diverse avventure per i miei familiari e per me, finite con parole che chiedevano di essere pronunciate, molte volte. La prima volta è stato un dolore all’occhio sinistro e una macchia opaca ad oscurare la visione. La seconda volta è stata una grande stanchezza, una piccola febbre che non passava, a pensarci bene forse, tempo prima, il respiro che non mi faceva più cantare.
Quando non stai bene la mente si allarma e cerca soluzioni, rassicurazioni. Anche gli altri intorno a te, medici e profani, faticano a guardare. Disorientamento la prima volta, incredulità la seconda. Ricordo il verde e il neon dell’ospedale, l’abbronzatura in dissonanza con un sorriso sospeso, chiuso da qualche parte. La lettura dei referti, il corpo violato, la voglia di scappare via. Hai paura e devi mangiare, hai paura e devi attendere, hai paura e devi firmare un foglio dopo l’altro, acconsentire. Ti devi affidare.

Ogni volta che la mente dice di no, il malessere aumenta: questo accade anche con il corpo, quando non stai bene prova ad ammorbidire. La tensione creata da quel no chiude anche alla possibilità di lasciare che il dolore sia più lieve. Lo ricordo soprattutto con il tubo del drenaggio dopo la seconda operazione, e con la nausea della chemio. Respira.
Che cosa voglio raccontare della mia storia di malattia? Le ondate dei pensieri, le spinte dei visceri stremati, la liberazione delle lacrime. Potrà suonare disordinato questo mio raccontare, ed è disordinato il sentire, dunque abbiate clemenza. Sclerosi multipla, diagnosi 1, un silenzio che oggi si rompe. Due parole incastrate in una ferita dell’anima: non ne parlo apertamente che con alcuni, fino ad ora. La parte più difficile è stata l’inondazione di informazioni sul farmaco, troppe, tutte in una volta. Un trauma.
Si tratta di una forma con ottima prognosi, mi è stato detto: vai avanti come prima, la vita non cambia. Forse è per questo che l’elaborazione di questa diagnosi è un processo più lento e laborioso. La vita è andata avanti, con le iniezioni tre volte a settimana e un vago timore delle giornate calde, molto di irrazionale. Queste parole fatte di consonanti che si scontrano fanno ancora male. Linfoma di Hodgkin, diagnosi 2, nata a termine dopo 9 mesi. Ci sono voluti 9 mesi, una biopsia, 2 ospedali e 3 interventi al torace. Una prima diagnosi di pseudotumore infiammatorio, ma non poteva bastare. C’è voluta una Vigilia di Natale a farmi dire dagli occhi gentili di un nuovo dottore che bisognava ricominciare.
Questa gestazione di diagnosi partita ad agosto si è conclusa a maggio; nel mezzo tanto, inclusa la pandemia. Tre ricoveri, di cui due lunghi, in ospedale da sola. Nei corridoi a ottobre le infermiere piangevano, trasferivano i pazienti al terzo piano, il reparto non è sicuro. Un chirurgo sfacciato e sarcastico che mi faceva ridere veniva a trovarmi ogni volta che poteva, mi accudiva come una figlia. Cura.

È straordinario l’amore che puoi toccare con mano quando ti ammali, le vicinanze che si fanno tessuto, trama e ordito, e gli abbracci che senti anche se non puoi toccare nessuno. La gratitudine è immensa. È straordinaria la solitudine che puoi abitare incontrando te stessa, una promessa: in questo tempo di tempesta solo mangia, prega, ama.
Le diagnosi sono state pronunciate, hanno svolto il proprio dovere: permettere di trovare una strada per farsi curare. La chemioterapia era un fantasma, poi è stata un viaggio, e la poesia, la creatività sono sbocciate inattese. Mi ripetevo, grata della mia pratica di mindfulness: riposa nelle cose così come sono. Che l’accettazione non è sconfitta, è aprire a un sentire curioso e fiero, amorevole e vivo.
Tornando alla cunetta, ai passi che questo scritto mi permette di fare, alla vigilia della Liberazione domani – 25 aprile – credo oggi di cogliere i frutti del percorso fatto nella malattia. Penso però, che i frutti che con fatica abbiamo generato, restino appesi alla pianta: sappiamo che ci sono, ma non diventeranno nutrimento, se non colti dalle nostre mani. C’è un momento in cui resti seduta di fronte ai frutti del tuo percorso e la paura dice ancora no, allora è l’intenzione che può guidarti e sostenerti. Chi vuoi essere, quale ruolo vuoi dare a questo vissuto, al tuo dolore che di tanto in tanto bussa, al tuo coraggio?
Oggi, prima di avvicinarmi a quell’albero che offre i suoi frutti, scrivo la storia e riguardo il cammino. L’ondata violenta del primo male, la resistenza strenua alla possibilità di averne un altro, i pensieri di morte, la rabbia che bruciando ha sollevato nuvole di fumo opacizzando il mondo, l’incredulità, l’immensa incertezza, l’incontro nudo con la verità, le parole rivolte a un Dio. Tutto questo forse può smettere di bruciare, lasciar spazio al silenzio e ad un nuovo, diverso ardore. Quindi, ti ringrazio per aver letto questo racconto disordinato delle mie tempeste, per essere testimone del giorno in cui sono salita sulla cunetta in mezzo alla pianura e, consapevole di un’altra vertiginosa ondata di incertezza, ho aperto bocca e ho pronunciato le parole.