Intervista impossibile a Franco Albini: i segreti di un oggetto svelano la bellezza

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Intervista impossibile a Franco Albini, l’intellettuale milanese che ha segnato la storia dell’architettura italiana nel mondo.
Franco Albini
Franco Albini interpretato da Max Ramezzana.

di Paola Albini e Cristina Sarcina

Interviste impossibili. Oggi incontro l’architetto Franco Albini e sono emozionata. Ho appena finito di fare una bellissima passeggiata immersa nella natura e nel silenzio delle valli ai piedi del Monte Cervino. Il paesaggio è coperto di neve, e in lontananza scorgo 
il fumo del camino levarsi dal tetto del rifugio Pirovano, la casa-albergo per ragazzi che Albini ha realizzato tra il 1948 e il 1952 e che è diventato il manifesto delle aspirazioni dell’architettura italiana del primo dopoguerra. Lui mi aspetta lì per una chiacchierata: è un signore elegante, silenzioso, rigoroso, ironico e serissimo. È l’intellettuale milanese che ha segnato la storia dell’architettura italiana nel mondo.

Oggi incontro l’architetto Franco Albini e sono emozionata.

Ho appena finito di fare una bellissima passeggiata immersa nella natura e nel silenzio delle valli ai piedi del Monte Cervino. Il paesaggio è coperto di neve, e in lontananza scorgo il fumo del camino levarsi dal tetto del rifugio Pirovano, la casa-albergo per ragazzi che Albini ha realizzato tra il 1948 e il 1952 e che è diventato il manifesto delle aspirazioni dell’architettura italiana del primo dopoguerra.

Lui mi aspetta lì per una chiacchierata: è un signore elegante, silenzioso, rigoroso, ironico e serissimo. È l’intellettuale milanese che ha segnato la storia dell’architettura italiana nel mondo.

Architetto Albini, vogliamo iniziare raccontando il metodo di pensiero e lavoro che ha ispirato tutte le sue opere?

«Ho sempre creduto nell’importanza di un metodo di lavoro e di ragione come mezzo di controllo, dal particolare al generale, come argine all’arbitrio della fantasia e come sistema di autodisciplina, che comporta sempre il dubbio e la continua verifica delle scelte.

Per sintetizzare il mio metodo le parlerò dei 5 principi costitutivi: scomporre, cercare l’essenza, ricomporre, verificare e agire con la consapevolezza di avere una responsabilità sociale.

Scomporre il progetto in parti è la prima azione imprescindibile per trovare l’essenza, un processo impeccabile che parte da ciò che c’è, lo segmenta in pezzi per comprenderlo in profondità, per lasciare andare ciò che è superfluo, per poi ricomporre l’essenziale in una nuova versione.

Questo principio di smontaggio e rimontaggio, per esempio, si ritrova nella mia poltrona Fiorenza. Ma è la mia poltroncina Luisa, del 1955, l’emblema del mio metodo progettuale: mi sono prima di tutto interrogato sulla funzione dell’oggetto, che è il primo atto creativo che l’architetto fa, poi ho scomposto la seduta nei suoi elementi costitutivi, ho cercato l’essenza, abbandonato il superfluo, ricomposto in forma nuova e verificato fintanto che non ho trovato la sua forma definitiva».

Franco Albini, (Robbiate 1905 – Milano 1977) è stato un architetto, urbanista e designer italiano, uno dei più importanti e rigorosi architetti italiani del XX secolo, aderente al Razionalismo italiano, riconosciuto internazionalmente attraverso un’ampia pubblicazione delle sue opere.

La famosa espressione «less is more» di Mies Van Der Rohe sembra esprimere perfettamente la filosofia del suo lavoro.

«Le racconto un aneddoto. Quando Renzo Piano entrò nel mio studio come tirocinante erano i primi anni 60, lui si trasferì apposta da Firenze a Milano per venire a imparare nel mio studio. Era determinato a imparare un metodo di lavoro.

Dopo avergli fatto indossare il camice bianco, come del resto facevo con tutti i componenti del mio studio per proteggere i polsi delle camicie dalle tracce di matita, lo portai a comprare un televisore in un negozio Brionvega.

Tornati in studio, gli chiesi di scomporlo nelle sue parti costituenti: fili, viti, altoparlanti, che lui meticolosamente allineò con pazienza, frammento dopo frammento.

E lo stesso principio ispira la mia radio in cristallo del 1938, che testimonia la ricerca dell’essenza. Nasce dallo smontaggio in pezzi di una vecchia radio di legno, per arrivare a mostrare le componenti elettriche dentro lastre di cristallo.

Ho sempre cercato di coniugare la funzionalità alla bellezza, rispondendo così ai bisogni non solo della materia ma anche dell’anima».

“Ho sempre cercato di coniugare la funzionalità alla bellezza, rispondendo così ai bisogni non solo della materia ma anche dell’anima”

Paola Albini (Milano, 1972). Nipote di Franco Albini e regista teatrale. Dal 2007 è vicepresidente della Fondazione Franco Albini e ne gestisce i progetti dal punto di vista creativo e produttivo realizzando eventi per tutti i target e le età. Obiettivo della Fondazione è divulgare il valore dell’archivio storico dello Studio.

Dopo aver scomposto, cercato l’essenza e ricomposto, si rende necessaria la verifica continua della direzione che prende un’idea, un obiettivo, un percorso.

«La verifica mi ha portato a lavorare su un’intuizione anche per anni, ne è un esempio il mio montante.

L’idea che volevo esplorare era quella di disegnare lo spazio in verticale per sospendere gli oggetti senza bisogno di mensole a muro, e da quello stesso montante verificato e riadattato in continuazione sono nate librerie, negozi, allestimenti domestici e museali, fino alla mia libreria Il Veliero, del 1940.

Un oggetto di leggerezza eterea, quasi spirituale, in cui aria e luce diventano i materiali di costruzione, dove i libri sono sospesi su lastre di cristallo, tanto da sembrare quasi volare nella stanza.

La verifica porta a chiedersi quale sia lo scopo, quali siano i valori che guidano il proprio lavoro e soprattutto perché. Ho sempre chiesto all’infinito il perché di ogni proposta, questa domanda che insistentemente ripetevo a ogni risposta non convincente, risuonava nell’eco della mia “r” arrotolata, diventando un motteggio rispettosamente ironico tra il mio staff».

Cristina Sarcina, classe 1983. Architetto specializzato nella progettazione e ristrutturazione di interni e con un interesse specifico per la bio-edilizia. Grande appassionata di ceramica e dell’arte in generale. Giornalista sociale del Bullone.

Il suo archivio e le sue opere racchiudono un’eredità di messaggi e insegnamenti che lei ha affidato a noi giovani e che contengono le sue lezioni silenziose.

«Ho sempre avuto la propensione a vivere la mia professione come una missione sociale. Già negli anni 30 progettavamo quartieri di case popolari, città verdi, spazi aperti, quartieri modello per migliorare la vita delle persone e creare un esempio di civiltà, ordine e igiene. Si lavorava alla creazione di soluzioni funzionali per facilitare le attività della vita quotidiana e restituire dignità a tutte le classi sociali.

Il mio design non si è mai fermato alla bellezza e alla funzionalità della forma, ma è diventato un messaggero di poesia, leggerezza, speranza. In epoca fascista ho creato opere che sono diventate messaggi di speranza per contrastare la tragedia del momento.

Ne è un esempio la mia lampada Mitragliera del 1938, chiamata così per la sua somiglianza con un fucile. Questa lampada ha messo a repentaglio la mia vita.

Ero sfollato da amici sul lago di Como e avevo con me la Mitragliera smontata e avvolta in una stoffa, peccato che sulla barca che mi stava traghettando sull’altra sponda del lago salirono anche un manipolo di “camicie nere” che iniziarono a ispezionarci e alla vista della lampada con canna di metallo montata su un calcio di fucile, mi minacciarono di arresto e di processo per direttissima.

Fu l’amico che viaggiava con me e che era conosciuto nella zona a salvarmi da quel destino certo. A quell’epoca non si poteva certo esplicitare il messaggio sociale e politico contenuto in quella lampada: un’invocazione a illuminare le ombre e a coltivare pensieri di pace per neutralizzare l’odio e la violenza.

Nei miei progetti nati in tempi tanto bui ho sempre portato la stessa domanda: quali messaggi vogliamo lasciare noi, attraverso quello che siamo e quello che facciamo?».

E questo è il più prezioso messaggio che abbiamo ereditato da lei.

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