Futuro – Come un bimbo sulle spalle: oltre le barriere del tempo

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La B.liver Federica analizza il futuro tra conoscenza, mito e realtà, mostrando come previsioni, arte e scienza influenzino le nostre azioni, mentre poesia e riflessione ci aiutano a viverlo consapevolmente.
Rappresentazione di Michelangelo della Sibilla delfica, a volte identificata con Cassandra. Affresco della Cappella Sistina, 1509.

Il prezzo del futuro: tra conoscenza, destino e speranza

Il futuro, da che mondo è mondo, o meglio, da che mondo è tempo, ha sempre avuto un prezzo. Spesso anche piuttosto alto. In certi casi si tratta di costi lampanti: pensiamo a Cassandra, cui nessuno credeva, o al cieco Tiresia, condannato, nella versione dantesca, insieme ad altri indovini, a camminare col viso rivoltato indietro. In altri, ma poi in effetti in tutti, il peso è dato in fondo dalla stessa innaturale conoscenza. Invidiabile? Questo è, non forse a caso, da vedere.

Interi mondi sono stati costruiti su e intorno al desiderio dell’uomo di conoscere il futuro, proprio o universale che sia: miti, arti, riti, religioni, professioni, pratiche più o meno bizzarre. E, come ogni desiderio, nel senso letterale del termine, anche questo è nato con e dalla frustrazione data da ciò che non è dato raggiungere. Non solo: pure in questo caso, infatti, l’oggetto del desiderio sembra essere appunto molto più desiderato fintantoché fuori dalla propria portata, o dalla convinzione di averlo finalmente tra le mani. Forse anche perché, una volta acquisita questa anelata e pur gravosa conoscenza, ci si rende davvero conto del poco che ce ne si può fare. E a confermarlo, spesso, è chi non l’ha nemmeno richiesta: «Cassandra vedeva troppo. Non c’era un istante che non fosse popolato da ciò che stava per accadere. Nessuno la ascoltava, e questo era il meno. La sua condanna era sapere che la conoscenza non salva, non ferma, non cambia nulla» (Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, 1988).

Ora nel tempo, tuttavia, le arti divinatorie si sono – potremmo dire – professionalizzate, e proprio sulla base di un assunto opposto, e cioè che la consapevolezza, per quanto parziale e approssimativa, di quel che sarà, o potrebbe essere, ha effettivamente un certo potenziale di condizionamento di ciò che decidiamo che sia. Oggi, non a caso, al di là di letture astrologiche e tarocchi (che vincono però, a mia personale discrezione, se non il premio di affidabilità, di certo quello del fascino narrativo), le previsioni pertengono per lo più all’ambito della scienza: si basano cioè su dati, frutto di statistiche e calcoli probabilistici, e puntano, pur con un margine di errore più o meno ampio a seconda delle circostanze, al maggior grado di attendibilità possibile. Basti pensare al meteo, ai mercati, agli studi sulle probabilità che si verifichino terremoti o eruzioni vulcaniche, al calcolo delle orbite di pianeti, asteroidi e comete, alle previsioni riguardanti i cambiamenti demografici, urbanistici, climatici. Gli scienziati, insomma, potremmo dire, sono i nuovi indovini.

Tuttavia, se da una parte sono cambiati i metodi adoperati per cercare di aprire spiragli di conoscenza sul futuro (non si guarda più al volo degli uccelli per interpretare una volontà divina, per intenderci), non molto diverse sono le sorti di coloro che condividono col resto del mondo ciò che dalla loro posizione gli è dato vedere: non perché vengano arsi vivi su roghi medievali, bensì perché spesso costretti a farsi ambasciatori di cattive notizie, al ritorno da quel tempo a cui, prima del tempo appunto, non a tutti è possibile arrivare; e non a tutti – quasi a nessuno – piace riceverne. Che ambasciator non porti pena, infatti, può sì essere un detto rassicurante, ma non sempre veritiero.

Tutt’altro che penoso deve essere d’altronde venire accusati di aver diffuso una bugia quando la propria previsione, per qualche motivo, si rivela errata (mentre chi punta il dito fatica a capire che il tempo è testimone, non giudice); così come dev’essere frustrante e angoscioso vedere il mondo correre presuntuosamente incontro a un destino che potrebbe, se non del tutto risparmiarsi, quantomeno prorogare, tentando, con i mezzi e le previsioni a disposizione, di invertire la rotta. Perché vero è che la conoscenza, da sola, non salva, non ferma, non cambia nulla, ma è altrettanto vero che qualcosa la può pur fare; a partire dal non ostinarsi a negare ciò che non si vuole sentire.

Vale per le verità collettive, vale per le verità personali. Le quali, se ha ragione Pavese ad affermare che «tutto è nell’infanzia, anche il fascino che sarà avvenire, che soltanto allora si sente come un urlo meraviglioso», sono allora da rintracciare anch’esse in ciò che siamo già stati. Perché ogni previsione trova le sue radici nel tempo che le sta alle spalle, e perciò anche al nuovo, in qualche modo, sempre si torna.

Concludo con una poesia tratta dal libro Blues in sedici, di Stefano Benni, un po’ forse per spiegarmi meglio, un po’ per far tornare qui – o meglio: ora – lui.

L’INDOVINO CIECO

Per quali prodigi e qual disegno
un albero cresca ramo dopo ramo
prendendosi il cielo, non so
né so perché i miei occhi di bambino
guardino ora dal volto di un vecchio.
Forse so la data della fine del mondo
e il primo palpito dell’inizio.
Ma non so cosa unisce il Padre al Figlio
e il Figlio alla ragazza dei profumi
e quella all’Assassino, al Teschio
e a Raiden il luminoso
e cosa li tiene sospesi sul filo
tra il primo e l’ultimo giorno
della loro vita preziosa.

Quando morirò, io posso saperlo:
morirò un giorno come tutti gli altri
ma perché tanta pietà io sento
per la morte di ognuno non so.
Non so perché un bambino a me uguale
dà nome agli alberi del giardino
e ad amici immaginari parla
mentre gli eserciti muovono
e lenzuola avvolgono i morti.
Non lo so, e sanguino.

Io non ho paura della città
né delle sue mille voci
ho imparato tra loro a conoscere
quella che chiama il mio nome.
Io non posso chiudere gli occhi
e le storie vengono a me
come odori dal giardino
o il ramo spinoso che trascina
il fiume da lontano.
Rane, grilli e fumo di ciminiere
rottami d’auto bagnati di luna
gente che riempie le strade
e sola si riaddormenta
cecità che accende i sogni
il cuore indifeso il segreto fiorire.

Io che leggi non cerco
ma l’anima mia ascolto.
Io vedo un uomo che si prepara ad uccidere
e un altro che cerca lavoro
un ragazzo innamorato, una ragazza fiera
un teschio tatuato su un braccio
un burattino di luce su un monitor
e una donna in riva a un mare
così chiaro da sembrare invisibile.

Io vecchio e cieco, vedo
che i destini si muovono
sento che sto sulla terra
come una foglia, volando
e gli universi precipitano
nel mio bicchiere vuoto, che trema.
Corri, corri, piccola mano
che sposti il sipario dei giorni
fino alla scena dove più non vedo
e dove tutti mi vedono.

Amore che hai sulla bocca
un segno amaro di lotta
io vedo vite che la speranza tocca
pulsare, vibrare, rivivere
come fa il pesce
restituito all’acqua.

– Federica Margherita Corpina

“Dev’essere frustrante e angoscioso vedere il mondo correre presuntuosamente incontro a un destino che potrebbe, se non del tutto risparmiarsi, quantomeno prorogare, tentando, con i mezzi e le previsioni a disposizione, di invertire la rotta. Perché vero è che la conoscenza, da sola, non salva, non ferma, non cambia nulla, ma è altrettanto vero che qualcosa la può pur fare; a partire dal non ostinarsi a negare ciò che non si vuole sentire.”

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