B.Liver Story: Giusy Scoppetta, “Trasformare il mio dolore per aiutare gli altri”

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La B.liver Giusy, 22 anni, racconta la sua lotta con l'anoressia, iniziata a 16 anni. Attraverso un percorso difficile ma supportato dalla famiglia, è arrivata a una nuova consapevolezza: la perfezione non è necessaria per sentirsi accettati. Ora, con la speranza di diventare psichiatra, combatte per la salute mentale e crede nella guarigione.
Una foto di Giusy Scopetta.
Una foto di Giusy Scoppetta.

Giusy e la sua battaglia con l’Anoressia Nervosa

Fisso il foglio bianco da troppo tempo. Penso e ripenso alle parole opportune da utilizzare, quelle perfette da pronunciare per la prima volta ad alta voce. Quella maledetta perfezione che ricerco sempre e che probabilmente non troverò mai, perché non esiste.

Dovrei pensare di meno – mi dicono – eppure la mia mente non fa che viaggiare.

Oggi però voglio provarci, farmi trasportare dal fluire dei pensieri.

Ricostruire gli anni vissuti, imprimerli e raccontarli ancora oggi non è semplice. Non mi sono mai fermata a pensare a quello che ho vissuto. Probabilmente come autoprotezione da tutto quel dolore, a ripensarci i ricordi non sono ancora vividi.

Solo qualche volta ho tentato di riunire i pezzi. Ho ricostruito la mia storia tra le stanze di un ospedale, davanti a volti sconosciuti che ora mi sono più familiari di altri, cercando di risalire dal buio.

Riavvolgiamo il nastro.

Giusy, 22 anni: ancora oggi provo ad orientarmi in una vita che mi ha fatto paura

Sono Giusy, ho 22 anni e sto imparando, ancora oggi, come orientarmi in questa vita che per troppo tempo mi ha fatto paura.

Sono nata in un piccolo paesino della Calabria, un posto in cui è facile vivere una bella infanzia all’aria aperta, circondata da altri bambini.

Ripensando alla me di allora, ricordo il mio sguardo curioso sul mondo, su ciò che mi circondava. Con i miei occhi scuri, incorniciati da boccoli prepotenti che mi coprivano il volto, immaginavo come sarebbe stato il mio futuro: probabilmente lontano dal luogo in cui ero nata, che mi faceva sentire diversa dagli altri.

Il mio mezzo di riscatto in quegli anni sarebbe stato ambire alla perfezione per sentirmi accettata, essere brava a scuola, non creare problemi, essere accondiscendente nelle amicizie: la classica «brava bambina» che non fa dispetti. Quella perfezione irraggiungibile, il fil rouge di tutta la mia storia.

L’adolescenza non è un periodo semplice per nessuno: tanti cambiamenti, amicizie nuove, i primi passi verso quella che poi sarà la vita da giovani adulti.

Essere brava per la mia famiglia non bastava più, dovevo sentirmi apprezzata a scuola, dai miei coetanei, dovevo meritarmi i momenti felici, non perché mi fosse imposto, ma perché solo così avrei potuto autodeterminare il mio valore in quanto persona.

Questi pensieri e non sentirmi parte di un gruppo hanno portato inconsciamente la mia mente, forse già non più tanto razionale, a trovare una soluzione per evadere, la più semplice e silenziosa, quella più conveniente. Se fossi diventata invisibile nessuno se ne sarebbe accorto.

Così l’anoressia nervosa è entrata nella mia vita in punta di piedi, occupando pian piano uno spazio sempre più grande quando avevo solo 16 anni.

Quando la malattia bussa alla tua porta si presenta nel migliore dei modi, offrendoti la felicità, facendoti credere di essere la soluzione a tutte le tue insicurezze, l’anestetico per qualsiasi emozione.

Inizia così la luna di miele del Disturbo del Comportamento Alimentare (così la chiamano gli esperti), l’anoressia ti tiene in gabbia nonostante le sbarre siano larghe per fuggire, ti fa credere di avere il controllo su tutto: «se puoi controllare il tuo corpo, puoi controllare tutto», allora perché devo fuggire da quella prigione?

Ai miei occhi, coperti, solo risultati positivi, vedevo il peso scendere e il rendimento scolastico e l’adrenalina aumentare: è tutto falso, la tua mente ti mente.

Mentre la malattia mi faceva credere che tutto andasse secondo i miei piani, la mia vita mi stava scivolando tra le dita come sabbia, granello per granello, senza che me ne accorgessi; non esisteva più un momento di convivialità, stavo perdendo le poche amicizie che avevo, uscire era solo un modo per poter bruciare calorie, i pensieri ossessivi occupavano ogni mio momento e io credevo che fosse normale.

Non mi accorgevo di nulla, nonostante che anche il mio corpo cercasse di mandare segnali.

La mia fortuna più grande è stata di avere una famiglia alle spalle, se non fosse stato per mamma, papà e Beatrice io oggi non sarei qui a scrivere, l’anoressia mi avrebbe travolta e portata al punto più basso. Se non fosse stato per loro non avrei mai potuto iniziare un percorso di cura, perché per la mia mente io non ne avevo bisogno.

La difficoltà più grande quando ci si ammala di DCA, non è soltanto dover affrontare il proprio dolore, ma anche trovare qualcuno che possa curarti, perché le strutture sono poche. Il periodo tra i miei 16 e 17 anni, di cui ancora oggi non ho un ricordo tanto vivido, lo passai a seguire diete di nutrizionisti e consigli di una psicologa non proprio adatta. Ho perso un anno della mia vita, un anno che mi stava costando anche la stessa possibilità di vivere, perché il tempo scorre veloce, così come i pensieri della malattia che pervadono la mente.

Non starò qui a parlare e a sottolineare il punto a cui mi ha portato, un anno dopo, l’anoressia a livello fisico, perché il peso, le calorie e qualsiasi altro numero non contano: un DCA è valido sempre, a prescindere dalla propria forma corporea. Un DCA è un disturbo mentale.

E soprattutto, se io avessi iniziato un percorso di cura molto prima, mi sarei risparmiata tante conseguenze organiche – che ancora oggi mi porto dietro – che stavano distruggendo il mio corpo, e che non serve avere per essere «validi» ammalati.

Ad agosto 2019 finalmente una luce, una piccola speranza prima per la mia famiglia e poi, mesi dopo, per me.

Il 7 agosto 2019 la mia prima visita al centro Disturbi del Comportamento Alimentare a Catanzaro. Ricordo la paura, la rabbia davanti a quella dottoressa che mi obbligava a seguire delle linee, a dover parlare, raccontare: la vedevo come una nemica, così come tutti i medici lì. Eppure mesi dopo i loro volti erano divenuti familiari e non ne avevo più timore.

Da lì è iniziato un percorso di consapevolezza su quello che stavo provando, ho riconosciuto per la prima volta che essere fragili non è una colpa e chiedere aiuto fa parte di noi umani.

Da quel giorno sono passati ancora 5 anni e ora mi trovo qui a scrivere con tanta vita vissuta in più. Mi sono diplomata e studio all’università.

Ancora oggi percorro la solita strada per andare in ambulatorio e fare le mie visite, perché il percorso di guarigione da un DCA è tortuoso, però ora non sono la Giusy di anni fa.

Ora quella ragazzina insicura sta acquisendo la consapevolezza che la perfezione non le serve, che il suo valore è indipendente dai risultati che ottiene e che l’amore si può ricevere a prescindere da cosa gli altri pensino di noi.

Oggi lotto per aiutare gli altri

Oggi parlare della mia malattia non mi fa paura, sì, mi sono ammalata e questa non è una colpa e non è una scelta.

Oggi il mio dolore può essere un mezzo per aiutare gli altri, sperando in futuro di poter essere una psichiatra, in grado di aiutare chi soffre.

Ora scendo in piazza, manifesto e lotto per miei diritti e per far capire agli altri quanto la salute mentale sia importante.

Non sono ancora guarita, e non so quando la guarigione arriverà, forse dovrei non pensare e lasciarmi sorprendere dalla vita: è forse questo il senso di guarigione? Io ci credo.

Mangerete polvere,

cercherete di impazzire e non ci riuscirete,

avrete sempre il filo della ragione

che vi taglierà in due.

Ma da queste profonde ferite

usciranno farfalle libere.

(Alda Merini)

– Giusy Scoppetta

“Questi pensieri e non sentirmi parte di un gruppo hanno portato inconsciamente la mia mente, forse già non più tanto razionale, a trovare una soluzione per evadere, la più semplice e silenziosa, quella più conveniente. Se fossi diventata invisibile nessuno se ne sarebbe accorto.

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