Le parole che cambiano: intervista al giornalista Nello Scavo, testimone di guerra
Giornalista, esperto di criminalità organizzata e inviato di guerra per il quotidiano Avvenire, da tre anni passa la maggior parte del tempo tra Ucraina e Medio Oriente. Oltre ai suoi reportage, ha scritto libri come Kiev (Garzanti, 2022) e Il salvatore di bambini – Una storia ucraina (Feltrinelli, 2024), inchiesta sulla deportazione di minori dai territori ucraini occupati, verso la Russia.
È possibile, nel suo mestiere, essere obiettivi, cercando di raccontare la verità?
«Si dice che la verità sia la prima vittima della guerra: è una frase fatta, ma bisogna in qualche modo declinarla.
Oggi la verità è più facile da manipolare, perché si mescolano realtà e finzione, vero e verosimile, e per noi giornalisti è molto complicato fare le giuste distinzioni. Capita a me per primo di cadere a volte nella trappola della manipolazione, ed è difficile dare una risposta.
Potrei farlo ricordando Robert Capa, antesignano dei fotografi di guerra, reporter e corrispondente, dato che scriveva anche molto bene. A lui dobbiamo immagini fondamentali della seconda guerra mondiale, tra cui quelle dello sbarco in Normandia. Di recente l’agenzia fotografica e casa editrice Contrasto ha ripubblicato un suo libro, intitolato Leggermente fuori fuoco, così chiamato perché proprio alcune foto dello sbarco alleato erano risultate come sfuocate, in realtà perché la pellicola si era inumidita e rovinata. Ma quello che Capa voleva dire era che se la foto risulta poco nitida non bisogna prendersela con l’attrezzatura fotografica, ma con il fatto che il fotografo non è abbastanza vicino al soggetto».
In che senso bisogna essere vicini?
«Sul tema della vicinanza mi sono fatto una sorta di dottrina o dogma: non si tratta solo di una distanza in centimetri, “vicino” è anche un dato empatico, cioè quanto sei vicino tu alle cose che racconti, nel bene e nel male, e noi descriviamo spesso il male e chi lo commette, ma questo non deve impedire di cercare di avvicinarsi a quella testa e capire cosa ci sia dentro.
Lo sforzo da compiere è questo: essere un testimone diretto lì dove le cose accadono. Io so che un morto è un morto, ma poi bisogna dare un contesto ai fatti, occorre “unire i puntini”. Dico spesso scherzando, ma non troppo, che dato che non sono stato uno studente modello, e l’enigmistica non era un mio punto di forza, quando prendevo La settimana enigmistica passavo quasi subito al gioco chiamato “Che cosa apparirà”, in cui unendo i puntini numerati appare un’immagine. Alla fine mi sentivo un po’ scemo, perché l’immagine era sempre stata lì sotto ai miei occhi, ma occorreva l’aiuto di una guida, dei puntini, appunto, per poter ricomporre e svelare quella figura. Penso che un giornalista debba fare proprio questo».

Ma quindi la verità è irraggiungibile?
«Oggi le guerre sono anche un bombardamento di informazioni, non solo fatto di piombo ed esplosivo, e dobbiamo imparare a unire i puntini per avvicinarci alla ricostruzione di un pezzo di verità. Su questo, però, sto molto attento a dire che la mia ambizione sia scrivere la verità. In proposito mi piace ricordare uno dei più grandi inviati di guerra italiani del Novecento, ancora vivente, Bernardo Valli, che ha pubblicato una raccolta dei suoi reportage dal titolo La verità del momento, che significa dare un perimetro molto preciso alle cose che raccontiamo, definite come “la prima bozza della Storia”.
Ciò vuol dire che devi essere consapevole che quanto scrivi non è la Storia, dato che come tutte le prime bozze può essere cestinata, perché magari hai capito male, o ti sei sbagliato, o i tuoi pregiudizi, la tua esperienza, la tua cultura o la tua ingenuità ti hanno fatto subire una manipolazione. Comunque è da lì che si parte quando si cerca di ricostruire un percorso anche storico. È la verità del momento, perché è quella che tu scrivi in presa diretta esattamente nel momento in cui ti trovi. Poi spetterà ad altri, storici, esperti, studiosi, analisti, provare a mettere insieme tutti i pezzi».
In che modo cerca di raccontare i fatti e le persone?
«Il mio compito è andare il più vicino possibile dove le cose accadono, non solo geograficamente, ma nel senso di avere uno sguardo ad altezza uomo: chi ha letto Il piccolo principe sa che esiste uno sguardo del cuore, e che “l’essenziale è invisibile agli occhi”, ma noi giornalisti dobbiamo andare per forza di cose alla ricerca di questo essenziale.
Riprendendo il discorso precedente, dai giornalisti non ci si deve aspettare la verità assoluta, anche perché a quel punto i giornalisti diventerebbero dei sacerdoti del nostro tempo, e quando questo avviene porta sempre un sacco di guai. Il giornalista è un testimone che va sul posto, usa la sua esperienza, cultura, mezzi, per guardare, domandare, ascoltare, e mettere insieme i pezzi, fornendo un contesto alle storie».
Tornando alla prima domanda, nel giornalismo, non solo di guerra, come si viene manipolati?
«Possono esserci manipolazioni molto subdole, quando nel bombardamento informativo non riesci ad accertare le notizie. Ad esempio, capita di riportare note d’agenzia che riferiscono “Zelensky sostiene che…” e “Putin risponde che…”, e si è costretti a precisare: “Non è stato possibile verificare in maniera indipendente questa notizia”.
Pensiamo al caso di Gaza: per noi è una frustrazione costante perché ai giornalisti non è consentito entrare, non ci vengono dati i permessi. Paradossalmente in Ucraina, dove c’è un conflitto tradizionale di un esercito contro un altro, anche se attorno ci sono mille diverse galassie, è più facile, perché i permessi ci sono rilasciati dalle autorità.
Il corrispondente di guerra è una figura normata dal diritto internazionale, ci sono dei diritti e dei doveri. A Gaza è diverso: è un perimetro chiuso da un muro di cemento armato che non possiamo superare, quindi raccontiamo un conflitto per interposta persona, con le informazioni che ci arrivano dai testimoni sul posto che cerchiamo di recuperare faticosamente, in particolare da giornalisti palestinesi, ma non è come essere lì ad esercitare un giornalismo di prossimità. Cerchiamo di compensare muovendoci molto in Cisgiordania o in Libano, dove ero stato già a contatto con i militari italiani dell’UNIFIL, ma a Gaza non possiamo proprio mettere piede.
Per chi legge le nostre cronache si capisce dal sapore che sono cronache a distanza, e il possibile approfondimento è mediato da altri, e in tutto questo le autorità sguazzano, perché possono fornirti informazioni di vario genere senza che possano essere controllate».
Bene e male sono categorie da sempre oggetto di interrogativi etici e filosofici. Come le affronta nel suo mestiere?
«Quando raccontiamo un evento, siamo in genere portati a semplificare, facendo una netta distinzione tra bene e male, buoni e cattivi, ma i rapporti interpersonali e la Storia ci dicono che non è così: scopriamo magari che chi consideravamo “cattivo” ha delle sue motivazioni e ragioni, e chi definivamo “buono” alla prima occasione può scambiarsi di posto con il cattivo. Spesso bene e male quindi si mescolano, ma questo non deve essere un alibi per relativizzare e farci dire che è tutto un gran minestrone, che sono tutti uguali: assolutamente no, e io cerco sempre di tenere presenti le ragioni e i torti delle parti, sforzandomi di mettermi nei panni degli altri.
Un faro che mi guida è il diritto internazionale: può sembrare paradossale, ma ci sono norme che stabiliscono, nelle guerre, quali armi si possono usare e quali no, quando è lecito uccidere o no, insomma, tutto quello che si può o non si può fare. Nell’analisi delle ragioni e dei torti, che naturalmente ci sono, bisogna stare molto attenti. Se hai subìto l’uccisione di dieci tuoi civili o soldati, pur con le tue ragioni, non ti puoi difendere uccidendo dall’altra parte diecimila persone, tanto più se per la maggior parte sono civili».
– Nello Schiavo
“[…] dai giornalisti non ci si deve aspettare la verità assoluta, anche perché a quel punto i giornalisti diventerebbero dei sacerdoti del nostro tempo, e quando questo avviene porta sempre un sacco di guai. Il giornalista è un testimone che va sul posto, usa la sua esperienza, cultura, mezzi, per guardare, domandare, ascoltare, e mettere insieme i pezzi, fornendo un contesto alle storie.”