La verità tra coraggio, solitudine e illusioni
Non si sa se sia togliersi i vestiti, sputare rospi, spazzare sotto il tappeto, o piuttosto disseppellire scheletri da tombe verticali piene di altri vestiti ancora. Forse nulla di tutto ciò, magari di tutto un po’: tipo togliersi di dosso un tappeto davanti allo specchio dell’armadio, che se lo tocchiamo con la punta di un manico di scopa ci trasforma in brutte ranocchie. Magari è una favola. Magari è la storia. Magari è solo il nostro tentativo di posticipare l’espiazione di dubbi atroci e irrimandabili prese di coscienza. Non sappiamo se ne abbiamo fatto un discorso universalmente vero, ma vero è che di verità abbiamo parlato con la scrittrice abruzzese Donatella Di Pietrantonio, laureata in Odontoiatria e vincitrice, con suoi diversi libri, di importanti premi letterari italiani. Tra parentesi: per noi, le rane, sono bellissime.

Per dire «dire la verità», la nostra lingua fa uso, come in altri altrettanto affascinanti casi, di espressioni vivide, immagini che rendono ancor meglio della letteralità ciò che si vuol dire. Perché essere sinceri equivale quindi a «mettersi a nudo»? E quanta consapevolezza richiede non sentirsi estremamente a disagio in un atto di tale, intima portata?
«Usare questa espressione rivela senz’altro tutta la difficoltà dell’atto di esporsi all’altro nella propria riposta verità. E questo mostrarsi sinceramente per ciò che si è, al di là di maschere, infingimenti e coperture varie, richiede indubbiamente una fiducia profonda nello sguardo a cui ci si rivela, ma pure un grande coraggio: il coraggio di scoprirsi sapendo di poter incorrere nel giudizio altrui, talvolta anche nello stigma, in certi casi persino nella derisione. Ecco: mettersi a nudo, soprattutto in tutte quelle situazioni in cui non possiamo contare con assoluta certezza sull’accoglienza e la comprensione di chi ci è di fronte, ne richiede davvero tanto».
Verità è quindi esposizione, ma pure solitudine, e in diverse accezioni: si è soli quando si è i primi a dire una verità scomoda; si è soli quando si ha la sensazione, pur dicendo la verità, di non essere creduti; e si rimane soli quando, pur di dire la verità, si corre il rischio di allontanare da sé qualcuno. Come non averne paura?
«Bisogna avere, anche qui, una grande consapevolezza di sé stessi, delle proprie risorse e, tra queste, della propria capacità di tollerare quella solitudine. A maggior ragione se la verità che sveliamo è una verità scomoda, è alto il rischio di restare soli. E di questo bisogna essere coscienti. Anche perché, se si persegue la verità, è necessario fare i conti con il fatto che c’è quasi sempre un prezzo da pagare: la verità costa, e pure caro».
Esistono bugie buone?
«Secondo me sì, esistono bugie buone, nel senso che a volte è necessario dirne per non ferire l’altro. Succede quando decidiamo di proteggere qualcuno, di non esporlo, soprattutto se in un momento di particolare fragilità o difficoltà, a una verità che reputiamo insopportabile. Non dico che vada fatto sempre, ma senz’altro può capitare. E ci espone comunque al rischio, nel caso in cui la bugia si rivelasse col tempo tale, di vederci rimproverata la presunzione di esserci arrogati la facoltà di giudizio – tollerabile o meno – sulla verità in questione».
«I miei pensieri, la mia realtà»: come distinguere la, o forse meglio una, verità da una bugia ben consolidata?
«Qui entriamo nel campo, vastissimo, dei meccanismi di difesa. Capita in realtà assai di frequente, questa cosa che, in un modo o nell’altro, nascondiamo a noi stessi il vero: neghiamo, rimuoviamo, mascheriamo. Difficilmente ci raccontiamo, infatti, una verità “pura”, e altrettanto difficile sarebbe credere il contrario. Nella maggior parte delle circostanze è all’opera un processo di manipolazione, un’alterazione almeno parziale del dato oggettivo; fino ad arrivare poi ai casi di totale rimozione o negazione. Sono senz’altro meccanismi di difesa; si può discutere poi su quanto siano o meno funzionali. Quindi, personalmente non mi scandalizzo quando mi accorgo con evidenza, che qualcuno si sta negando una verità: è chiaro che queste, a volte, ci risultino così intollerabili, così difficili da accettare, che le sottraiamo al nostro campo visivo. E magari agli occhi di qualcun altro, questa nostra operazione potrebbe risultare palese, ma evidentemente noi, in quel dato momento, non abbiamo bisogno che di quello: di vedere quello che vogliamo vedere, e di non vedere quello che invece non vogliamo vedere, pur standoci tutto obiettivamente di fronte. E gli occhi di quel qualcuno forse soffriranno pure nell’essere spettatori della verità in questione (nella quale sono magari in qualche modo coinvolti) e dell’atto della sua rimozione: in questi casi, a volte può essere giusto smascherare, in altri chiedersi piuttosto “chi sono io per?”; e chi sono io, nello specifico, per smascherare una verità che l’altro non vuole sapere».
«Voglio la verità che ricordavo / perché questa è troppo brutta»: recita così un passaggio del testo della canzone La verità che ricordavo, degli Afterhours. Le bugie ben consolidate di cui prima spesso diventano miti, e i miti, si sa, crollano. Per parlare ancora con le parole del brano, come spiegare ai sogni il concetto di onestà?
«È una domanda difficile, ma forse la risposta è che in fondo, un sogno, onesto non deve essere. Perché, d’altronde dovrebbe? Il sogno è libero, sgrammaticato, scorretto. Chiaro: poi non sempre ad esso può seguire il passaggio all’atto; ed è lì che deve intervenire l’onestà. Ma il sogno inteso come fantasia, la fantasticheria, personalmente credo possa concedersi di non avere limiti. Altrimenti che sogno sarebbe, se fosse obbligato a essere onesto, sincero? Se obbligassimo il sogno ad avere tutte le virtù del reale non avrebbe più senso sognare».
Se la verità non è assoluta, se esistono tante verità per quanti siamo noi, a chi concedere oggi la nostra fiducia? E, quest’ultima, va meritata?
«Sì, direi che la fiducia va meritata. In generale, trovo poi che avere un atteggiamento di apertura verso l’altro sia qualcosa di profondamente umano e buono. Tanto poi ci pensa la vita a disciplinare la fiducia che diamo agli altri: tutto quello che ci capita, anche le delusioni e la possibilità di essere feriti, tutto questo ci educa a modulare la quantità di fiducia che siamo disposti a concedere».
– Antonella Di Pietrantonio
“Questo mostrarsi sinceramente per ciò che si è, al di là di maschere, infingimenti e coperture varie, richiede indubbiamente una fiducia profonda nello sguardo a cui ci si rivela, ma pure un grande coraggio: il coraggio di scoprirsi sapendo di poter incorrere nel giudizio altrui, talvolta anche nello stigma, in certi casi persino nella derisione. Ecco: mettersi a nudo, soprattutto in tutte quelle situazioni in cui non possiamo contare con assoluta certezza sull’accoglienza e la comprensione di chi ci è di fronte, ne richiede davvero tanto. “