Il nome che dà valore: la vita oltre la vetrina
Costruiamo la nostra esistenza in funzione di momenti, esperienze e obiettivi che arricchiscano la nostra persona, non solo da un punto di vista umano; nel momento stesso in cui viviamo quei momenti cerchiamo conferma nell’altro, un riconoscimento che possa determinare il nostro valore, che ci possa definire «bravi».
Come se la nostra vita fosse una vetrina, magari anche influenzata dai social, e noi i collezionisti pronti ad esporre ciò che c’è di positivo e che può definire il nostro valore.
E allora noi B.liver ci siamo chiesti: ma il valore di un essere umano dipende da cosa si ha o da cosa si è? E può essere definito?
Ne parliamo con Cristina Cattaneo, medico legale e antropologa forense, nonché direttrice del LABANOF (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense) a Milano.
La Dottoressa Cattaneo ogni giorno incrocia delle vite sospese, interrotte, in cerca del loro finale che possa ridare valore anche al loro vissuto, perché in fin dei conti anche un corpo può raccontarci tante cose ancora, anche sulla vita.

Illustrata da Chiara Bosna.
Dottoressa, tramite il suo lavoro contribuisce a ricostruire un pezzo di storia di molte vite. Quanto è importante restituire un nome, un’identità per ridare a un corpo il suo valore, in quanto umano?
«Restituire un nome a un corpo è alla base dell’etica del mio lavoro, lo potremmo definire come il primo comandamento del medico legale. Ciò è importante per poter ridare e riconoscere a quella vita una dignità, umanizzandola. Restituendo un nome a quel corpo restituiamo valore anche alla vita vissuta e ai suoi familiari permettendo loro di affrontare il lutto e di superare la scomparsa. Restituire un valore a una vita è inestimabile, così come la vita stessa lo è secondo il diritto internazionale. Nel mondo della medicina legale a volte il valore di una persona e del suo corpo, vengono valutati in termini puramente economici per risarcire chi ha subito un danno o una violenza, modificando il suo stato di salute. Resta il fatto che una vita ha un valore che non può essere stimato numericamente, o ripagato in termini valoriali».
Ma si può stabilire il valore di una vita rispetto a un’altra? Mi vengono in mente le situazioni di emergenza, dove figure professionali, come i medici, sono di fronte a un bivio, in cui scegliere quale vita salvare. Ma come si può valutare una vita?
«Purtroppo, in occasioni di emergenza il pericolo obbliga un medico responsabile, a dover scegliere, a rispondere a una domanda che moralmente non si dovrebbe porre. La medicina si basa sulla deontologia che dà un valore inestimabile alla vita, queste domande non sono deontologiche sicuramente e devono essere probabilmente valutate in base alla situazione che si sta affrontando, sulla base di parametri che sono dipendenti da chi prende la decisione e non giudicabili».
Parlando di valore della vita e seguendo il suo lavoro, non posso non pensare ai migranti morti nel Mediterraneo e a quel ragazzino del Mali identificato da lei nel 2015. La dottoressa Cattaneo ha partecipato per prima a un progetto pilota che si occupa di identificare le vittime morte nel Mediterraneo durante gli sbarchi, in cerca di un futuro migliore.
Nell’aprile 2015 è affondato, proprio al largo di Lampedusa, un barcone su cui mille naufraghi sono morti; più di 500 sono stati identificati grazie al team della dottoressa.
Tra questi, tanti adolescenti e giovani, proprio come un quattordicenne del Mali identificato, il cui corpo è stato esaminato dal gruppo di ricerca e da Cristina Cattaneo. Il ragazzo aveva cucito all’interno dei suoi vestiti – come per proteggere un dono prezioso – una pagella con ottimi voti, nella la speranza che quel pezzo di carta potesse essere un lasciapassare verso un nuovo futuro; quella pagella è affondata con lui nel mar Mediterraneo, portando via con sé il desiderio di una vita migliore.
Ritornando alla discussione:
La nostra società ci fa credere, come ha fatto credere al ragazzino migrante, che il nostro valore sia il risultato di ciò che otteniamo, ma il valore di un essere umano non è intrinseco e indipendente da ciò che ha?
«Questa storia ci fa capire come la nostra società, così come quella a cui apparteneva il bambino del Mali, vivano secondo gli stessi canoni. Eppure, la nostra società è la stessa che lascia morire proprio questi migranti in mare, dimostrandoci che una vita può avere un valore diverso da un’altra solo per il colore della pelle o per le tue origini, ma il diritto alla vita dovrebbe essere indipendente da ciò che uno ha e da ciò che uno è. Anche i nostri giovani, così quel giovane ragazzo del Mali, tendono a voler dimostrare di ottenere e avere piuttosto di essere, portando a una crisi che potremmo definire, soprattutto oggi, generazionale. Ciò forse dovrebbe farci riflettere per cambiare prospettiva».
Il suo lavoro quanto ha modificato il valore che lei dà alla sua e alla vita in generale?
«Ha rafforzato il pensiero che ho sempre avuto: ogni vita ha un valore uguale, ma la società è ancora sempre più discriminante verso i vulnerabili. Il mio lavoro mi porta a trattare sempre con vittime di violenza, i sopraffatti, morti suicidi di cui non si tende a parlare. E così la società ha deciso già a chi dare più valore, anche solo nella comunicazione. La sala autoptica sa essere un tavolo molto spietato e oggettivo della società; infatti, molte volte chi muore racconta anche qualcosa su chi vive. Negli ultimi anni arrivano da noi sempre di più morti suicidi, in aumento soprattutto in giovane età. Ma queste morti fanno meno rumore di altre, cadendo nel silenzio, frutto di un Sistema Sanitario Nazionale che dimentica la salute mentale. Così, non parlandone, ma dimenticando, stiamo e stanno già decidendo di lasciare indietro delle vite, non investendo anche sulla cura di queste patologie».
Negli ultimi anni l’attenzione al suo lavoro e anche ai casi che tratta è aumentata, dovuta forse a una curiosità più forte verso il mondo del true crime. Se questo ha ridato voce a delle storie che prima non avrebbero avuto questa risonanza, vi è anche un’attenzione ossessiva divenuta un vero e proprio intrattenimento. Crede che questo possa togliere il valore che la storia ha in sé?
«Se da un lato questo fatto ha acceso un’attenzione al lavoro che svolgiamo i miei colleghi ed io, allo stesso tempo, questa narrazione ha finito per togliere valore alla vita della vittima che viene oggettivizzata. Ciò che suscita l’attenzione non è tanto la vita della persona, vittima, ma un’attenzione per i dettagli, la violenza subita, il carnefice di questa violenza. Si porta avanti una narrazione in cui si mette in luce una violenza diretta, quella più cruda e interessante a livello di intrattenimento, dimenticando che esistono altre forme di violenza, indiretta. Per esempio, parlando di un tema attuale, come purtroppo il femminicidio, è più semplice che un caso dove la vittima che ha subito una violenza attiri l’attenzione, che il suicidio di una giovane donna, di cui non si verrà mai a scoprire se fosse vittima di violenza. Il true crime e la narrazione che c’è dietro distoglie l’attenzione da diverse cose, bloccandosi solo sul momento della morte e dimenticando il vissuto che ha avuto quella persona».
In una società che lei ha definito come discriminatoria verso il valore di ogni vita, pensa che questa interpretazione possa essere modificata dalle generazioni successive?
«Lasciamo a voi giovani un compito importante, ribaltare il sistema valoriale che sta alla base della società. In un mondo sempre più preponderante verso la disuguaglianza e la discriminazione, voi giovani dovrete impegnarvi a ristabilire anche i valori di uguaglianza ideologica dei diritti, che alla fine sono anche alla base della Costituzione della nostra Repubblica. Pensando ai futuri medici, che quindi prenderanno il posto della nostra classe lavorativa, spero che prendano le redini per ricostituire un Sistema Sanitario Nazionale che non lasci indietro nessuno e che ribadisca attraverso i principi della medicina quanto la vita sia da preservare, sempre».
Il lavoro e l’impegno quotidiano di Cristina Cattaneo ci insegnano che ogni vita ha un valore unico, a prescindere da ciò che decidiamo di esporre. Forse più che ciò che mostriamo e decidiamo di mostrare nella «nostra vetrina», conta ciò che cerchiamo di custodire, un po’ come la speranza cucita addosso al bambino del Mali. Ora tocca a noi giovani ricostruire da dove è stato distrutto, in un mondo in cui nessuno debba più dimostrare di meritare il diritto di esistere.
– Cristina Cattaneo
“[…] ogni vita ha un valore uguale, ma la società è ancora sempre più discriminante verso i vulnerabili. Il mio lavoro mi porta a trattare sempre con vittime di violenza, i sopraffatti, morti suicidi di cui non si tende a parlare. E così la società ha deciso già a chi dare più valore, anche solo nella comunicazione. La sala autoptica sa essere un tavolo molto spietato e oggettivo della società; infatti, molte volte chi muore racconta anche qualcosa su chi vive. Negli ultimi anni arrivano da noi sempre di più morti suicidi, in aumento soprattutto in giovane età. Ma queste morti fanno meno rumore di altre, cadendo nel silenzio, frutto di un Sistema Sanitario Nazionale che dimentica la salute mentale.”